
23 marzo 1944. Le lancette dell’orologio avevano da poco segnato le 15.30, quando una bomba nascosta in un carretto della spazzatura, uccise 33 soldati tedeschi e sei civili italiani. L’attentato di via Rasella contro il battaglione Bozen, firmato dal Gap, fu “punito” con il sangue. Il giorno dopo, 335 persone furono uccise e sepolte nelle fosse Ardeatine, poco lontano da Roma.
L’attentato
Gli uomini del reggimento Bozen percorrevano, ogni giorno, alcune strade nel centro di Roma. Sempre lo stesso tragitto, sempre alla stessa ora. Questo li rendeva un “bersaglio facile” per un’azione di guerriglia. Toccò a via Rasella, una parallela di via del Tritone, a due passi da Fontana di Trevi e Piazza di Spagna, “ospitare” l’attacco. Le cariche esplosive furono nascoste in un bidone della spazzatura. A piazzarlo in strada fu uno studente 21enne di medicina, Rosario Bentivegna. Travestito da spazzino, sistemò la pattumiera in attesa dei tedeschi di ritorno dalle esercitazioni al poligono di tiro di Tor di Quinto.
Alle 15.30, con mezz’ora in ritardo, i soldati comparvero in fondo alla strada. Era il momento. A dare il segnale, levandosi il cappello, fu un altro partigiano, Franco Calamandrei. Bentivegna capisce, accende la miccia e si allontana. Ad attenderlo, poco distante, Carla Cappone che lo coprì con un impermeabile per nascondere l’uniforme da spazzino.
Via Rasella è, come allora, una strada stretta. L’intera compagnia venne praticamente spazzata via: 33 militari morirono sul colpo, altri dopo poche ore. Dei 156 uomini – tra ufficiali, sottoufficiali e truppa – 110 rimasero feriti in maniera più o meno grave. Nell’esplosione morirono anche due civili italiani. Quattro furono uccisi nella sparatoria con cui i tedeschi reagirono all’esplosione.
La strage delle Fosse Ardeatine
Quando gli venne comunicata la notizia dell’attacco, Adolf Hitler ordinò di radere al suolo un intero quartiere di Roma e pretese una punizione esemplare: cinquanta italiani avrebbero dovuto essere fucilati per ognuno dei soldati tedeschi morti nell’attentato, ma una proporzione di uno a cinquanta sembrò eccessiva anche ai militari nazisti. Albert Kesselring, il comandante dell’esercito tedesco in Italia, si oppose insieme a molti degli altri ufficiali e riuscì a persuadere Hitler ad abbassare le sue richieste. Venne deciso che dieci italiani sarebbero stati uccisi per ognuno dei tedeschi morti nell’attentato.
Da quel momento cominciò la caccia agli ostaggi da fucilare. Dovevano essere più di 300, teoricamente persone «Toteskandidaten» («degne di morte»), ma i numeri non tornavano. Alla fine, nella foga di rintracciare tutti i prigionieri da “giustiziare” nella lista finirono in più del necessario. È stato scritto anche che fossero stati messi dei manifesti, per strada e sui giornali, nei quali i tedeschi comunicavano che se i partigiani responsabili dell’attentato non si fossero presentati spontaneamente loro avrebbero ucciso dieci italiani per ogni tedesco morto in via Rasella. Il messaggio era chiaro: i partigiani codardi, con il loro silenzio, mandarono a morte 335 italiani incolpevoli. Non fu così, tutto fu organizzato in gran segreto.
Portati fuori Roma, vennero condannati a morte, uccisi con un colpo di pistola alla nuca mentre veniva distribuito del cognac per tenere alto il morale. Il capitano Erich Priebke ebbe il compito di spuntare i nomi dei condannati dall’elenco man mano che entravano nelle cave. Per questo fu soprannominato il «boia delle Fosse Ardeatine». Una volta concluso il giro, le grotte della cava vennero fatte esplodere.
A lungo si è discusso sull’attentato di via Rasella e sulla strage delle Fosse Ardeatine. E come spesso accade tanto di quei racconti sembra essere lontano dalla verità. Cosa che non rende certo giustizia alle vittime.