Santo Martignano, Rocco Vita, Cesare Perdicchia, Cosimo Merenda, Salvatore Ventura, Carmelo Serrano, Donato Santantonio, Pompeo Bruno, Roberto Corvaglia, Vito Venneri, Salvatore Cucinelli, Francesco Palazzo, Salvatore Capoccia, Pasquale Stifani, Cosimo Ruperto. Sono i nomi dei salentini che hanno perso la vita nel disastro di Marcinelle. Giovani, padri, mariti che avevano lasciato la loro terra per morire intrappolati nella miniera di carbone di Bois du Cazier, una delle più antiche del Belgio, trasformata in una trappola mortale. Era l’8 agosto del 1956.
La tragedia di Marcinelle
Le lancette dell’orologio segnavano le 8.30 del mattino, quando nel pozzo numero uno andò in scena una tragedia senza precedenti che scosse il Belgio e il mondo intero. Un incendio, causato da una catena di eventi, costò la vita a 262 minatori di dodici diverse nazionalità. 136 erano italiani attirati in Belgio dalle promesse di una buona paga e un lavoro “dei sogni” come scritto nei volantini rosa affissi persino nelle chiese rimaste in piedi dopo il conflitto.
Fu un accordo politico siglato nel 1948 dai governi di Roma e Bruxelles a portare decine di migliaia di uomini, ‘sporchi maccaroni’ come venivano chiamati dalla popolazione belga, a lavorare nei pericolosi cunicoli delle miniere, spinti dalla fame. Braccia umane in cambio di carbone che l’Italia avrebbe ricevuto (200 chilogrammi al giorno per ogni minatore). Molti decisero di preparare la valigia di cartone, prendere il treno con un biglietto di sola andata nelle affollate stazioni del Sud, per cercare fortuna.
La disperazione dopo la speranza: “Tutti morti”
Quando le fiamme furono domate, ventiquattro ore dopo, i soccorritori cercarono disperatamente superstiti. L’unica possibilità di trovare qualcuno ancora vivo era un rifugio, situato a 1.035 metri sotto terra. Lavorarono ininterrottamente per giorni per raggiungerlo, ma quando aprirono la porta scoprirono solo cadaveri, abbracciati gli uni agli altri. Era troppo tardi: uno dei minatori intrappolati aveva scritto con il carbone: «È l’una e trenta, siamo in 50 e fuggiamo verso la 26 PO», nome dato a uno dei tratti di una galleria della miniera.
Anche la più piccola speranza delle giovani mogli, delle madri e dei figli fu spezzata da un comunicato che annunciava “Sono tutti morti”, così come titolarono i quotidiani dell’epoca, usciti di buona mattina in edizione straordinaria, listati a lutto. I «musi neri», come erano soprannominati i minatori per via della fuliggine impressa sui visi, avevano trovato in quei cunicoli la fine.
Il 22 marzo del 1957 furono portati in superficie gli ultimi corpi. Era una geografia del disastro italiano: Abruzzo 60, Puglia 22, Marche 12, Friuli 27, Molise 7, Sicilia 5.