Lui che aveva vissuto la vita al millesimo di secondo, nel segno della velocità e delle luci dei riflettori sempre pronte ad immortalare i suoi successi, ha deciso di andare via in silenzio, senza clamori, con una cerimonia per pochi intimi, scelti personalmente prima di esalare l’ultimo respiro. Era il 14 febbraio 1988 quando Enzo Ferrari è morto in gran segreto nella sua casa di Modena. Erano le 7.00 del mattino di una domenica senza corse, alla vigilia di Ferragosto che lui odiava tanto.
Il mondo però avrebbe saputo solo a cose fatte della scomparsa del leggendario imprenditore che ha creato uno dei marchi più famosi al mondo, quel cavallino rampante donato da Paolina Biancoli. La madre dell’aviere Francesco Baracca – un asso durante il primo conflitto mondiale con 34 duelli vinti contro gli avversari austroungarici – aveva regalato al pilota il simbolo che il figlio scomparso in guerra fissava sulla fusoliera degli aerei come segno di riconoscimento. «Spero le porti fortuna», avrebbe detto. A quel simbolo Ferrari aggiunse lo sfondo giallo (colore della sua città, Modena) e quelle iniziali S.F. che avrebbero scritto una pagina importante della storia dell’automobilismo.
Tanti soprannomi per un personaggio unico
Raccontare uno come Enzo Ferrari, uomo dalle mille sfaccettature e spigolature, il creatore di gioielli su quattro ruote posseduti da pochi e desiderati da molti, non è facile. Basti pensare che in 90 anni ha avuto diversi soprannomi che, nel tempo, hanno segnato la sua carriera. “Commendatore“, uno dei più usati e celebri per il fondatore del mito di Maranello, lo conquistò nel 1927. Non solo per il titolo, quanto per i suoi meccanici che, storpiando un po’ il dialetto, lo chiamavano “Cumandator”, quasi a far derivare il nomignolo dalla parola “comando”.
“Ingegnere” gli venne affibbiato senza che lui abbia passato molto tempo sui banchi della scuola (aveva imparato tutto nell’officina di suo padre) e ne andava orgoglioso. Il “Mago” perché era capace di far compiere ai piloti che correvano con le sue auto gesta e imprese leggendarie, quasi magiche. Drake, dal celebre corsaro inglese che aveva per motto “sic parvis magna”, dalle piccole cose nascono grandi imprese. Coniato dagli avversari, racchiudeva un mix di ammirazione e accusa. Il primo per la capacità di conquistare risultati sportivi impensabili per quella piccola azienda. Il secondo per il modo, quasi “dittatoriale” con cui li otteneva.
Più di tutti è stato un italiano che è riuscito a cambiare il mondo senza mai lasciare la sua Modena. Non prendeva mai l’ascensore, l’aereo o il treno, non andava mai in vacanza, non viaggiava mai e negli ultimi quarant’anni della sua vita non si è spostato da Maranello.
La morte del figlio Dino
Commendatore, cavaliere del lavoro, due lauree honoris causa (una in ingegneria meccanica dall’Università di Bologna e una in fisica dall’Università di Modena e Reggio Emilia), nove vittorie ai campionati del mondo, Enzo Ferrari ha reso la sua esistenza leggendaria, anche se la sua vita privata è costellata anche di grandi tragedie familiari, una vita tormentata da “grandi dolori e gioie terribili”.
Nel 1956 muore a soli 24 anni il suo adorato figlio Dino. Il brillante ingegnere ha perso la sua battaglia contro la distrofia muscolare, una malattia genetica che, in poco tempo, lo ha strappato via all’affetto della sua famiglia. Dino, come il fratello che perse la vita a causa di una grave infezione contratta durante il servizio militare.
«Io mi ero illuso che le nostre cure potessero ridargli la salute – spiegò anni dopo Enzo Ferrari – perché un padre si illude sempre. M’ero convinto che fosse come una mia macchina, uno dei motori. E così mi ero fatto una tabella delle calorie di tutti gli alimenti che Dino doveva ingerire e che non avrebbero nuociuto ai suoi reni, tenevo un aggiornatissimo diagramma quotidiano delle albumine, del peso specifico dell’urina, del tasso azotemico del sangue, della diuresi eccetera, che mi dava l’indice dell’andamento della malattia. La realtà, tristissima, era ben altra: mio figlio deperiva costantemente perché colpito da distrofia muscolare progressiva. Si spegneva per questa terribile malattia che nessuno ha mai potuto individuare né curare, che nessuna difesa consente all’infuori della profilassi genetica. Fin quando una sera, in quella agenda dove annotavo tutti questi dati, scrissi: la partita è perduta»
I funerali
Era malato da tempo. A giugno non era riuscito a incontrare papa Giovanni Paolo II in visita agli stabilimenti di Maranello. Ai funerali nel cimitero di San Cataldo a Modena, dove riposa anche il figlio Dino, parteciparono in pochi. I nomi erano stati scritti su un foglio di carta lasciato nel cassetto del comodino con l’immancabile inchiostro viola. L’ultimo suo appunto.
È stato il fidato autista, Carlo Benzi, ad organizzare la cerimonia senza destare alcun sospetto, ma quando la notizia della sua scomparsa cominciò a fare il giro del mondo a piangerlo non furono solo quei pochi intimi.
Il resto è storia, dell’automobilismo, dell’Italia, di un mito, le sue frasi. Negli anni cinquanta ai giornalisti che spesso gli chiedevano se la sua auto personale fosse una Ferrari, il Drake rispondeva: «No, purtroppo non me la posso permettere».