Il furto della Gioconda, da imbianchino a ladro per restituire il capolavoro di Leonardo all’Italia

È forse anche grazie al furto della Gioconda se il capolavoro di Leonardo da Vinci è diventato il dipinto più famoso al mondo. La storia di Vincenzo Peruggia, l’imbianchino patriota.

È passato più di un secolo, ma il furto della Gioconda, il dipinto forse più famoso al mondo, è ancora uno dei colpi più celebri della storia. Era il 1911 quando Vincenzo Peruggia, un italiano senza macchia convinto che la MonnaLisa fosse stata rubata all’Italia da Napoleone, riuscì a far sparire il quadro da non propio inviolabile Louvre per riportarlo a casa.

Tutti sanno che non è questa la vera storia del capolavoro di Leonardo da Vinci, che fu il genio toscano a ‘venderlo’ all’allora re di Francia per 4mila ducati d’oro, ma quella credenza ha sempre affascinato, alimentata dalla nostalgia di aver “perso” uno dei capolavori più belli (e misteriosi) di sempre.

Fu proprio quel falso mito a convincere un imbianchino a mettere a segno un colpo da far invidia ad Arsenio Lupen. E non per lucro, ma per recuperare il maltolto. Non sapeva che sarebbe entrato nella storia e che con il suo gesto avrebbe contribuito a far crescere la popolarità del ritratto di Lisa Gherardini, una nobildonna di Firenze, moglie di Francesco Del Gioconto, un ricco mercante fiorentino.

Il colpo del secolo

La storia del furto del secolo comincia la mattina del 21 agosto, qualche minuto prima delle 7.00. Un pittore francese, tal Louis Béround, aveva varcato la soglia del museo, chiuso al pubblico come ogni lunedì, per dipingere una copia della Gioconda, ma lo spazio tra il Matrimonio mistico di Santa Caterina del Correggio e l’Allegoria coniugale del Tiziano nel Salon Carré era vuoto. Il dipinto della Monnalisa era sparito.

Sparito, non rubato. Perché c’è voluto un po’ per capire di essere davanti al primo grande furto di un’opera d’arte da un museo, messo a segno da un anonimo imbianchino giunto a Parigi per cercare fortuna. Un colpo da ‘maestro’ senza lasciare tracce. Una in realtà poteva tradirlo, ma quell’impronta trovata sulla cornice abbandonata sul pavimento vicino a una porta secondaria abitualmente usata dagli operai, insieme al vetro protettivo, non portò a nulla.

Quando vennero arrestati Picasso e Apollinaire

Hanno condotto in un vicolo cieco anche gli interrogatori, persino di Guillaume Apollinaire e del pittore Pablo Picasso. A tradire il poeta fu il suo amate Honoré Joseph Géry Pieret, ladro di professione, che aveva deciso di giocare d’anticipo raccontando alla redazione del Paris Journal, in cambio di 250 franchi, tutti (o quasi) i “furtarelli” che aveva commesso al Louvre.

Una confessione prezzolata che coinvolse i due artisti. Alcune statuette antiche, infatti, furono acquistate dallo scrittore e dal suo “complice”. Scoperti i due, si dice, architettarono un piano: gettare la valigia con le preziose opere nella Senna, nottetempo. Alla fine restituirono il bottino, non senza guai. Apollinaire fu arrestato e passò diversi giorni in carcere. Picasso fu rilasciato dopo un umiliante interrogatorio.

Il punto era un altro: non avevano architettato il furto della Gioconda. La soluzione era lì, a portata di mano, ma nessuno se ne accorse, nemmeno quando venne perquisita la stanza di Vincenzo Peruggia, controllato come tutti coloro che quel lunedì erano presenti al Louvre.

La perquisizione

Poche settimane dopo il furto, gli investigatori che avevano ascoltato con attenzione tutti i dipendenti del Museo bussarono alla porta di Peruggia. Poche domande, una occhiata neanche troppo attenta in giro, una perquisizione dei suoi uomini fino a quando l’ispettore decise di congedarsi, non prima di aver compilato il verbale. Ironia della sorte, lo fa appoggiandosi sul tavolino sotto il quale era nascosto, in una intercapedine, il dipinto di Leonardo. Un capolavoro portato via semplicemente arrotolandolo nel cappotto.

Tutto finisce quando Peruggia decide di sbarazzarsi del quadro

Il ladro riesce a passare inosservato anche quando riportata il dipinto in Italia. Sale sul treno Parigi-Milano con il suo baule, come se fosse uno dei tanti italiani che tornano a casa, ma in un doppio fondo nella valigia, avvolta da diversi strati di velluto e ‘protetta’ dalla biancheria sporca c’era la Gioconda. Per due lunghi anni il suo sguardo ha incrociato solo quello di Peruggia. Il faccia a faccia con quel sorriso enigmatico terminò una sera, quando decise di vendere il quadro al prezzo “simbolico” di 500mila lire, come “rimborso spese” per il fastidio. Ad un patto: che il dipinto sarebbe rimasto in Italia, custodito ed esposto in bella mostra alla Galleria degli Uffizi.

Per questo, aveva contattato un mercante d’arte, l’antiquario Alfredo Geri per proporgli l’acquisto dell’opera “rubata da Napoleone“. Tutto sembra filare liscio nel falso appuntamento organizzato per capire se quell’opera fosse originale. Era così, era il dipinto rubato. Il motivo? Restituire all’Italia uno dei tanti capolavori sottratti al nostro Paese da Napoleone, come aveva letto sfogliando un libro trovato nella stanza di un impiegato del Louvre. Insomma, si era trattato di un gesto patriottico. Inizialmente, Peruggia aveva pensato alla Bella Giardiniera, ma le dimensioni esagerate del quadro lo avevano dissuaso. Toccò così alla Gioconda.

Il processo

Il processo si tenne a Firenze, nel 1914. La pressione popolare e l’invocazione dell’infermità mentale (confermata dall’indovinello postogli dal medico psichiatra del tribunale, il professor Paolo Amaldi, che assunse l’incarico il 24 maggio del 1914: “Su un albero ci sono due uccelli. Se un cacciatore spara a uno di essi, quanti ne rimangono sull’albero?”; “Uno!”, rispose Peruggia. “Deficiente!”, tuonò il medico, in quanto la risposta alla domanda era zero, perché l’altro sarebbe scappato) sortirono comunque l’effetto di indurre la corte a concedergli le attenuanti e a comminargli una pena assai mite: un anno e quindici giorni di prigione, poi ridotti a sette mesi e otto giorni.

Nel 1921, Peruggia si sposa e decide di emigrare nuovamente in Francia. Ma come fare, visto che era stato classificato come “indesiderabile”? Semplice: nella domanda per avere il visto, anziché Vincenzo, si firma Pietro, il suo secondo nome, e il permesso di soggiorno gli viene dato senza problemi. Muore per un infarto, l’8 ottobre del 1925, proprio il giorno del suo quarantaquattresimo compleanno.



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