Gino Santoro, il maestro che insegnava in silenzio

Vent’anni di amicizia raccontati in un ricordo gioioso di Gino Santoro, un grande della Cultura salentina. L’Editoriale di Marco Renna.

Il dispiacere che ho provato nel leggere il manifesto che mi ha annunciato la tua morte puoi capirlo solo tu che adesso sai vedere e leggere oltre lo spazio e il tempo, nell’immortalità ultraterrena che ti è stata concessa per i tanti meriti acquisiti, anche se tu ne avresti fatto volentieri a meno. Gino caro non ti ho nemmeno salutato, da tempo non ci frequentavamo più e questo non mi sta bene, perché ingiusta è la partenza senza gli amici che si sbracciano per salutarti e chiederti di restare.

Io adesso piango il mio professore universitario di Storia del teatro e dello spettacolo che tanto mi ha insegnato, ma fuori dai libri, lungo le strade sterrate che portano al mare o nella campagna bruciata dai gemelli bollenti luglio e agosto. In quelle serate a casa tua a San Foca, dove anche l’inverno mostravi benevola ospitalità a quelli a cui volevi bene. Una sera ti ricordo particolarmente ben disposto verso un giovane apprendista giornalista che veniva a chiederti di raccontare il tarantismo al mondo di oggi. Una sera, fra le altre, quando con l’amico e collega Giuliano Capani e l’archeologo Mimmo Pagliara, preparammo una trasmissione televisiva sulle tradizioni popolari, i luoghi e la musica del Salento.

Non ho mai dimenticato la sorpresa che mi facesti. Insieme a Rina Durante, portasti negli studi televisivi di Telerama George Lapassade, uno dei più grandi antropologi contemporanei, scomparso di recente. La puntata fu un successo. Sparammo a zero sulla prosopopea dei salentini e sull’inganno concettuale della salentinità.

Caro Gino, la mia prima indagine giornalistica sul Salento la preparai con te. Giovanissimo scrivevo per il quotidiano Il Roma e il direttore mi chiese due pagine su una meraviglia chiamata Roca. E chi meglio di te poteva dirmi e darmi su Roca e dintorni? Ci facemmo una settimana di sopralluoghi, tirando fuori cose talmente belle che oggi ce le possiamo solo sognare. Quando potevo ti inserivo nei commenti, nei dibattiti sul territorio, nelle questioni dell’attualità. “Marcu lassame stare” dicevi. Era sempre così quando venivi tirato per la giacchetta, nel fragore dei giornali. Da uomo di cultura ne conoscevi il potenziale. Dannoso intendo.

E poi l’Università. L’esame fu una cavalcata divertente, e il 30 e lode finale mi spinse a osare di chiederti la tesi sul cinema di Kubrick, che era morto l’anno prima. Dopo mesi di stallo mi chiedevi “a cce stamu? Dai Marco, moi Kubrick resuscita…”. Ti ricordi quando mi chiamasti per andare insieme al Paisiello a vedere la retrospettiva sul Cinema di Kubrick? Per la prima volta a Lecce, al cinema e in lingua originale i capolavori del maestro. Grazie alla Biennale che riuscisti a portare in Salento. “Occhio, mi dicesti, guarda dove finisce questa apertura” (lo zoom all’indietro della scena iniziale di Arancia Meccanica con la macchina che parte dall’occhio di Alex e arriva a comprendere tutto il Korova Milk bar). Non l’avevo mai notato prima il genio assoluto di quel movimento.

E ancora la sera a casa tua quando la Lazio sfilò all’ultima giornata lo scudetto alla Juventus e le sere a vedere i concerti del Canzoniere grecanico e degli Arakne Mediterranea.

Un giorno mi vergognai di me, amico e maestro, ti coinvolsi in un dibattito mal riuscito, organizzato da un comune del sud Salento. Il sindaco del tempo per riempire la sala fece entrare, quasi costretti, gli anziani della piazza, e gli ex minatori tornati nella città natale. La tua faccia resta indimenticabile mentre parlavi di cinema e teatro ad una platea scesa dalle nuvole. E il rimprovero “ Marcu tocca la spicci cu ste manie televisive”.

Ti facevi sentire quando volevi. Le serate chiassose di Otranto non ti erano piaciute. Un tuo editoriale sul Quotidiano di Lecce creò scompiglio in città e in provincia. Non ti era andata a genio la stagione di una particolare località balneare definita più o meno “donna di facili costumi”. Ti chiamai per dirti “professore ce ha cumbenatu?”, e la risposta “Eh si, ma ormai l’ho combinato”. Voglio chiudere questo mio ricordo con le confidenze che mi facevi sui festival della pizzica. Diciamo che la tua idea era tua e tanto mi basta.

Gino mio, non ti ho salutato, ma ti prometto che quando sarò io a partire da questa terra, tu sarai uno dei primi che verrò a trovare, ovunque sarai.



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