
Attore, scrittore, pittore, ma forse più di tutto un “giullare” come amava definirsi Dario Fo, artista di spessore e di ineguagliabile bravura che con la moglie Franca Rame compagna di vita, di scorribande, di arte e di amore aveva conquistato il mondo, come il suo «Mistero Buffo», lo spettacolo diventato la sua opera più famosa in cui recitava testi antichi in grammelot, un linguaggio teatrale che mescolava lingue, dialetti e parole tutte sue prive di significato.
Era il 13 ottobre 2016 quando il drammaturgo si è spento all’Ospedale Sacco di Milano, dove era stato ricoverato per problemi respiratori. “Se mi dovesse capitare qualcosa, dite che ho fatto di tutto per campare“, ha scherzato fino all’ultimo. Aveva 90 anni, ma non si era mai fermato. Continuava a lavorare come se volesse godere di ogni secondo di quell’esistenza «esageratamente fortunata» come ripeteva spesso, consapevole di aver fatto tanta strada, senza sentirsi mai arrivato, di aver conquistato tanti riconoscimenti, come il premio nobel alla Letteratura vinto nel 1997, ma riconoscente alla “sorte” a cui ha sempre detto grazie.
È uscito di scena in punta di piedi, tre anni dopo la sua Franca che aveva sposato nel 1954. Un colpo di fulmine durato tutta la vita. «Dario è un monumento e io il suo basamento» amava ripetere lei. Un amore senza tempo che nemmeno litigi, gelosie e incomprensioni erano riusciti a scalfire. Quando era andata via, stroncata da un ictus, aveva perso un po’ di luce negli occhi, ma aveva continuato a sentila vicina. Un giorno, rimase incantato davanti ad una rosa sbocciata fuori stagione nel giardino della sua casa milanese di Porta Romana e si convinse che fosse stata Franca a fargli quel dono per “mostrargli” che era sempre al suo fianco, che era ancora “il suo tutto”.
Impossibile riassumere la carriera di Fo, il suo impegno sociale e politico, le sue battaglie a sinistra, sempre. Tranne nell’ultimo periodo quando cominciò ad impegnarsi, in prima linea come aveva sempre fatto, per il Movimento Cinque Stelle.
C’è un filo rosso che ha legato le opere del sommo drammaturgo: il fatto che abbiano sempre fatto parlare. Nel 1970 fece discutere con «Morte accidentale di un anarchico», scritta di getto dopo la strage di piazza Fontana per non dimenticare Giuseppe Pinelli, “caduto” dalla finestra al quarto piano della Questura di Milano. Fu uno gli intellettuali che firmarono la lettera contro il Commissario Luigi Calabresi, accusato altrettanto ingiustamente di essere responsabile del ‘suicidio’ dell’anarchico. Nella sua lunga carriera fu persino candidato alla Presidenza della Repubblica, dopo Giorgio Napolitano.
Fo, per uno strano segno del destino, ha deciso di andarsene il giorno in cui l’Accademia di Svezia avrebbe consegnato il Premio Nobel per la Letteratura. «È stato un gran finale» aveva detto il figlio Jacopo che dai genitori ha ereditato l’amore per la cultura.