Elogio del cappero, l’orchidea del Mediterraneo che non ha mai ispirato nessuno. Tranne le polemiche

Gli ulivi, la vite e l’alloro hanno ‘ispirato’ poesie e dipinti, ma del cappero chiamato “orchidea del Mediterraneo” non ha mai parlato nessuno. Poche le tracce nella letteratura o nelle arti figurative

Curiosamente la pianta del cappero non ha una letteratura. Degli ulivi, della vite, dell’alloro, di tant’altro ci raccontano abbondantemente i Greci e i Romani. Non è da scambiarsi con una infestante, e può essere che di rimando non abbia mai gradito essere infestata dagli inchiostri.

È proprio così: del cappero non m’è data traccia di leggenda, salvo uno Zenone che vi giurava e spergiurava sopra. Eppure, non meno di altre espressioni floreali, rappresenta il Mare Nostro nella sua globalità. Si dice che nel Mezzogiorno l’abbiano diffuso gli arabi. E non sa forse d’Oriente lo stesso prelibato gusto del bocciolo?

Non ha poesia, il cappero! Neanche l’amato Bodini la innesta fra le sue case di calce. Sarà che è davvero brutta questa parola col suo ritmo sdrucciolo e l’incidenza delle sue sorde? In salentino ha preso la forma del “chiapparu”. E non va meglio. Si ride o si sorride, semmai. Sì, è proprio brutto il cappero. È sconveniente usarlo a fine verso: a meno che non vi baleni l’estro del verso sciolto! È indigeribile il cappero sospeso sulla punta della nostra lingua!

Ma quant’è bello il cappero sospeso alle mura di un castello? Eppure non è stato più fortunato nella storia della arti figurative. Quali grandi artisti l’hanno riprodotto su tela? Se una leggenda fosse mai stata, racconterebbe del vento: un vento di scirocco che raccoglie un seme di cappero e lo deposita nella fessura di un’antica rocca, lo abbandona nell’invisibile pertugio di un luogo abbandonato, vi attinge il pigmento, e di quella parete spoglia, gialla o bianca o grigia, fa con plastiche pennellate un quadro.

Una macchia di verde, isolata, che nondimeno conferisce movimento al paesaggio altrimenti piatto e severo: come di un giardino verticale che apra all’esterno una costruzione concepita a fini viceversa di chiusura e preclusione. (Come tutti i muri, del resto.) E antichi soldati arroccati dietro i merli, guardinghi e timorosi dell’oltre; e al contrario, i rami del cappero riversi all’affaccio: ricadenti come capelli di chissà quale irraggiungibile dama, che si sporga dal robusto Carlo V di Lecce o dallo Sforzesco di Milano.

Chiome irraggiungibili come lo sono i pini loricati di quell’altra Magna Grecia. Chiome inarrivabili perchè, si sa, il cappero è geloso della sua bellezza. La concede in tutta la sua generosità solo a maggio e giugno, coi suoi incantevoli fiori dai petali bianchi e gli stami violacei, i filamenti lunghissimi. L’orchidea del Mediterraneo, la dicono. Sarà la forma del fiore? O forse che, similmente alle orchidee, che hanno optato per le radici aeree, il cappero ha deciso anch’esso di abitare il cielo? In alto. Solitario come solitario può essere un vetusto castello. Non è forse quella pianta di cappero lassù in cima, sul portale, stemma e blasone di quel vento che, come canta il Qoelet, gira e rigira e sui suoi giri sempre ritorna?

E come è suggestiva, nella lingua italiana, quella precisa assonanza vocalica di cappero e castello, a dispetto d’ogni resistenza d’accenti! Sembra recitare una più sottile simbiosi, quasi che l’antica fortezza fosse giunta a credere, come il “Platero” di Juan Ramón Jiménez, che il cappero sogni i suoi stessi sogni o i suoi stessi antichi trascorsi. Un’ultima scorsa bibliografica a cercare soccorso.

Cade mano al libro dei libri. Il Vecchio Testamento. Troveremo qualcosa? Proprio nel Qoelet, al capitolo XII, fra le maglie della difficile traduzione, si cela una parola, pur’essa solitaria, bella, lontana, ambigua: ‘aviyohnàh, che vuol dire “cappero” e ad un tempo vuol dire “appetito”.

Si confida sempre, col santissimo Autore, nei risvegli di appetiti di bellezza, prima che gli uomini se ne vadano “alla dimora eterna e i piagnoni percorrano le strade”.



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