Salvatore Giuliano, il mistero della morte del bandito di Montelepre o del suo sosia

È il 5 luglio 1950, quando il corpo senza vita del bandito Salvatore Giuliano fu ritrovato nel cortile di un’abitazione a Castelvetrano. Ma la morte del criminale non ha mai convinto del tutto.

5 luglio 1950. Nel cortile di un’abitazione di Castelvetrano fu ritrovato il corpo senza vita di un uomo, freddato a colpi di mitra. Non un nome qualunque. Riverso per terra c’era Salvatore Giuliano, il re di Montelepre che ha collezionato crimini – si contano trecento, forse quattrocento delitti firmati dal boss e dalla sua banda – fino alla strage di portella della Ginestra il primo maggio 1947.

Quel giorno afoso di inizio luglio, ufficialmente in un conflitto a fuoco tra banditi e Carabinieri, era stata scritta la parola fine sulla vita di un criminale. Doveva essere l’ultimo atto della storia di un fuorilegge cominciata il 3 settembre 1943, quando Giuliano, non ancora 21enne, uccise un Carabiniere che lo aveva fermato mentre trasportava due sacchi di grano acquistati al mercato nero, ma tanti particolari non convincono, oggi come allora.

E come accade sempre quando qualcosa non torna, più non si hanno risposte più le domande si caricano di mistero. Forse perché a Turiddu, come lo chiamavano i suoi, si legano e incastrano pezzi importanti, dalla mafia allo Stato passando dai servizi segreti.

«Di certo c’è solo che è morto» titolava, nel 1950, un articolo firmato da Tommaso Besozzi e pubblicato sulle pagine del settimanale l’Europeo, ma neanche questa è stata mai una certezza.

Ad essere ucciso fu un sosia di Salvatore Giuliano

Una messinscena, una ricostruzione ad hoc per coprire una verità ben diversa. Nel tempo si è fatta strada l’idea che il corpo senza vita ritrovato nel cortile dell’abitazione dell’ “avvocaticchio” Gregorio Di Maria non era quello di Salvatore Giuliano, ma di un sosia – un giovane di Altofonte, un paesino a pochi chilometri da Palermo, scelto dal boss dopo lunghe ricerche e scomparso nel nulla un giorno prima della sparatoria di via Fra’ Serafino Mannone – per consentire al bandito di fuggire in America, protetto dai servizi segreti, dove sarebbe morto ultraottantenne.

Ad “insospettire” erano state alcune fotografie scattate il pomeriggio del 6 luglio. Il cadavere era «troppo fresco» per essere stato all’aria aperta dalle 3.30 di notte alle 10.00 del mattino, quando fu scoperto. Non solo, apparentemente il corpo non mostrava segni di rigor mortis dopo 37 ore e dalle ferite continuava a scendere sangue. Quella dello scambio di persona è stata una voce, una diceria, una leggenda, un brusio costante fino all’esame del Dna. Gli accertamenti hanno confermato che i resti sepolti nella tomba della cappella di famiglia appartengono realmente al “Robin Hood” siciliano. Secondo i periti combacia per almeno il 90% con quello del nipote Giuseppe Sciortino Giuliano.

La versione di Gaspare Pisciotta

Secondo un’altra versione, il boss fu assassinato da Nunzio Badalamenti che voleva mettere le mani sulla taglia che pendeva sul capo del bandito. Fu il “cugino traditore” Gaspare Pisciotta (anche se tra i due non è stato trovato al cune legame di consanguineità) a mettere un sonnifero nel bicchiere di vino del boss. E quando Giuliano cadde in un sonno profondo, Badalamenti, ufficialmente rinchiuso in una cella all’Ucciardone, sparò. Il cadavere, eliminato per ordine di Cosa Nostra, fu poi trascinato nel cortile dove è stato ritrovato.

Secondo un’altra versione ancora, fu Aspanu ad apire il fuoco dopo aver stretto un accordo con le Forze dell’Ordine. Pisciotta fu trovato morto in Carcere, avvelenato con un caffé alla stricnina, un veleno letale usato dai contadini per uccidere le volpi. Senza avere la possibilità di raccontare la verità che aveva deciso di confessare.



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