Si può chiamare «condanna» l’errore umano di apprezzare qualcosa solo dopo averla persa? Una sorta di pena, punizione o prezzo da pagare per non aver colto che di fronte, tra le mani o più semplicemente accanto, si aveva qualcosa di prezioso, eccezionale, unico? È un meccanismo difficile da capire, è accaduto in passato, accade oggi e accadrà domani. Forse per sempre. Perché sembra essere questo il destino di alcuni «grandi»: vivere nell’ombra fino a quando non verrà fatta luce. Quanti esempi si potrebbero fare, quanti errori sono stati commessi, quanti nomi hanno ricevuto l’attenzione e la dignità che meritavano solo dopo, quando era troppo tardi.
Mia Martini è solo un esempio. Lei che aveva smesso di essere Domenica Adriana Rita Berté per diventare prima Mimì Berté, un nome in linea con il gusto yeye degli anni ‘60 e poi, solo in un secondo momento, Mia Martini. Martini, perché è la parola italiana più conosciuta in America dopo pizza e spaghetti. Mia, invece, in omaggio a Mia Farrow.
Nell’agosto del ’69, arriva il primo colpo basso: viene arrestata in Sardegna per possesso di hashish. Resterà in carcere fino a dicembre. Quattro mesi in cui, per sua stessa ammissione, aveva anche pensato al suicidio. Sbattuta sui giornali, in prima pagina, con il rimmel sbavato dalle lacrime per 35milligrammi. Da quel momento la sua vita artistica sarà costellata da una serie impressionante di successi e catastrofi. In tre anni, dal 1971 al 1973, diventa la numero uno. Sono gli anni di «piccolo uomo» e «Minuetto», il brano che Franco Califano le ha cucito addosso come un vestito, un pezzo pregiato di sartoria artigianale. Ma le ombre sono sempre in agguato.
Nel 1971 due musicisti della band che l’accompagnano in tournée morirono in un incidente d’auto. Una fatalità che ha dato vita alla voce che quella ragazza che si presentava sul palco con una bombetta nera e uno scialle viola, che era finita in carcere per droga, sia una che porta male. Dicerie, cattiverie alimentate dalla gelosia e dall’invidia.
Si accumulano aneddoti che diventano prove a carico della strega in una sorta di processo che non prevede assoluzioni. Isolata, maledetta, Mia è esposta a ogni attacco; a un certo punto anche il suo rapporto con la sorella Loredana sembra rompersi. Nell’83 decide di smettere di cantare, di scomparire.
Mimì aveva deciso di ritirarsi dalle scene, perseguitata da quel venticello della calunnia. Resta una sua celebre frase «Meglio essere sospettati di avere l’ Aids. Si può dimostrare il contrario con un test. Ma per la jella che cosa si fa, una radiografia?» Poi, una sera di dicembre, dopo un incidente stradale (la sua macchina scivola su una lastra di ghiaccio), decise di tornare. E lo fece in grande stile al Festival di Sanremo del 1989 con il brano «Almeno tu nell’universo». È la prima ad esibirsi, si avvicinò al microfono quasi fosse una neofita e fu subito magia. Quel lungo applauso era la sua rivincita.
Quei pochi anni che le restano sono costellati da una serie di capolavori: «Gli uomini non cambiano», «La nevicata del ’56», il duetto con Roberto Murolo «Cu’mme». Ma non basta. Per Mia Martini niente sembra bastare mai. È piena di debiti, ma ancor di più di fantasmi. Decide di andare a vivere vicino al padre, a Cardano al Campo in provincia di Varese. Una casa modesta, quella in cui la mattina del 12 maggio del 1995 venne trovata morta per arresto cardiaco in circostanze ancora da molti considerate sospette. Dubbi che nemmeno l’autopsia è riuscita a fugare. Stesa sul letto, le cuffie del walkman sulle orecchie. “L’espressione serena”, scriveranno. Forse aveva finalmente trovato pace, una pace che nessuno avrebbe ormai più potuto turbare.
«Gloria postuma» la chiamano, ma a che serve quando un’artista, una cantante considerata la più grande interprete della musica italiana, per quella gloria ha combattuto fino alla fine, invano? Una battaglia contro il pregiudizio, la maldicenza e l’indifferenza che ha perso miseramente. Rimane il senso di colpa. E la sua musica.