Matteo Messina Denaro, la fine del boss ‘che ha riempito un camposanto’

Matteo Messina Denaro, il latitante numero uno d’Italia, era stato catturato il 16 gennaio in una clinica di lusso di Palermo.

«Sono Matteo Messina Denaro». Quando è stato arrestato dai Carabinieri del Ros e del Gis non ha usato il nome scritto nero su bianco sulla carta di identità consegnata allo sportello-accettazione della clinica di Palermo, dove si era messo in fila come tutti gli altri malati oncologici che il lunedì fanno la terapia. C’erano tre persone davanti a lui, forse inconsapevoli di avere accanto uno dei boss più pericolosi al mondo, ricercato da 30 anni. Per tutti, quell’uomo che, con pazienza, attendeva il suo turno era Andrea Bonafede, geometra di Campobello di Mazara che sorrideva ai pazienti, aveva una parola gentile per tutti e regalava olio ai medici, come cadeau per la premura dimostrata durante le cure.

L’arresto

In fila, quella mattina storica, c’era anche un maresciallo in borghese. Fa un cenno ai suoi compagni, basta uno sguardo per dare il via all’operazione che si è conclusa con l’arresto del capo di Cosa Nostra, in una stradina accanto alla clinica, dove si era recato a piedi, probabilmente per prendere il caffè. Quando le prime immagini della cattura fanno il giro del mondo, in pochi riescono a riconoscere in quel volto coperto da un cappello di lana il sanguinario padrino che, nella sua lunga carriera criminale, ha ammazzato talmente tante persone da “riempire un cimitero”. Di certo, la lista degli omicidi commessi è lunga, tra nomi eccellenti e innocenti che hanno pagato “colpe” di altri come nel caso del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido per punire il papà, Santino, che aveva deciso di pentirsi (leggi qui la sua storia).

Montone imbottito, camicia elegante, pantaloni slim-fit, stivaletti tono su tono, cintura di pitone e orologio da 36.000 euro. Così Matteo Messina Denaro si è presentato nell’hangar malandato rimesso a nuovo dai ragazzi del Ros. Nel capannone “Alfa 11” c’è una poesia scritta dalla piccola Nadia Nencioni, una delle cinque vittime della strage di via dei Georgofili, avvenuta a Firenze il 27 maggio 1993. “Il pomeriggio se ne va/il tramonto si avvicina/un momento stupendo/Il sole sta andando via (a letto)/È già sera tutto è finito”, si legge. Il titolo “Tramonto” era anche il nome in codice dell’operazione.

Qui, il boss chiede un foglio e una penna. «I carabinieri del Ros e del Gis mi hanno trattato con grande rispetto e umanità. Palermo, 16 gennaio 2023». Firmato: «Matteo Messina Denaro».

Gentile è una parola usata spesso nel racconto dell’arresto che ha scritto una pagina importante nella storia della lotta alla mafia. Così è stato descritto il falso signor Bonafede dai pazienti della clinica, dalle signore con cui faceva la chemioterapia e si scambiava messaggini, dai vicini di casa a Campobello di Mazara e persino da chi lo ha “incontrato” nel carcere di massima sicurezza, dove è stato trasferito. Tranquillo e sempre sorridente, così si è mostrato l’ex primula rossa che non ha perso la sua ironia. «Fino a stanotte ero incensurato. Poi non so che è successo. Non ho mai avuto a che fare con la giustizia» risponde a chi gli chiedeva i precedenti per compilare la scheda in cui si registra ogni nuovo detenuto. Alla domanda sulla residenza ha sorriso: «Non ne ho mai avuta una». Un altro lo ha abbozzato quando gli è stato chiesto se c’erano precedenti in famiglia.

Il coma irreversibile

Matteo Messina Denaro il boss che ha fatto sapere che non ha alcuna intenzione di parlare, qualora qualcuno lo pensasse, è in coma irreversibile, clinicamente morto. U siccu, che ha firmato la strage di Capaci, quella dei Gergofili a Firenze e di via Palestro a Milano, il Diabolik dell’attentato mancato a Maurizio Costanzo, se ne andrà portandosi nella tomba tutti i segreti, come un vero padrino, come Totò Riina che si vantava di averlo cresciuto «sulle sue ginocchia», o Bernando Provenzano. Andrà via senza aver avuto mai una scintilla di pentimento, senza aver mai detto una parola sulle pagine più nere della storia d’Italia.

«Sono un criminale onesto, non un mafioso», una delle sue tante sfide, dopo le manette. Non è riuscito nell’impresa del padre, Don Ciccio, ritrovato senza vita nelle campagne tra Mazara del Vallo e Castelvetrano. Denaro mani giunte, vestito scuro e mocassini nuovi disse “sulu mortu lu putistivu pigghiari”. Lui, invece, era stato preso perché malato (“Mi avete preso perché sono malato, non mi pentirò mai”, disse). E come il padre Francesco, morirà senza lasciando ad altri il compito di scrivere la sua storia