«Il battito, qui, dei pensieri è prossimo al respiro degli ulivi»: conversazione con Antonio Prete, vincitore del Premio Bodini 2020

Il Salento della lontananza, il Salento della poesia, il Salento del ricordo nelle parole di Antonio Prete

Antonio Prete con “Tutto è sempre ora” (Giulio Einaudi Editore) è il vincitore della settima edizione del Premio Bodini.  L’autore ha dialogato con Leccenews24 sulla poesia e sulla memoria, e sul Salento della poesia e sul Salento della memoria.

Antonio Prete è saggista, narratore, poeta e traduttore; è nato a Copertino nel 1939. Ha insegnato letteratura comparata a Siena e alla Scuola Superiore Galileiana di Padova. Ha tenuto corsi e seminari presso la Harvard University, il Collège De France, l’Università di Salamanca. Ha fondato e diretto la rivista “Il gallo silvestre”. Ha scritto saggi fondamentali: “Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi”, “Nostalgia. Storia di un sentimento”, “I fiori di Baudelaire. L’infinito nelle strade”, “Trattato della lontananza”, “Compassione. Storia di un sentimento”, “Il cielo nascosto “ e “Grammatica dell’interiorità”.  Ha tradotto Baudelaire, Mallarmè, Rilke, Valèry, Celan, Jabès, Machado, Bonnefoy.

Lei si muove fra più generi di scrittura: saggistica, narrativa, poesia, ai quali si aggiunge la traduzione, che è un altro genere di scrittura. Qual è la funzione prevalente della poesia?

Certo, ogni genere di scrittura ha una sua tradizione formale, una sua ragione interna, una sua storia, e risponde a una serie di convenzioni, o comunque a una sorta di patto silenzioso con il lettore. Così è anche della poesia, che è fatta di versi, e di silenzi tra le parole, e di spazi bianchi, e di musica che sta nelle sillabe, nei toni, nei rapporti tra le parole, insomma è fatta di suonosenso (suono inseparabile dal senso). Da questo punto di vista la poesia è come il momento distillato, cioè  una specie di essenza, della lingua. Ma, devo aggiungere, citando un pensiero di Leopardi, che si può essere poeti anche in prosa. Quanto a me, accade di praticare tutte le forme che lei ha nominato, e tuttavia sento che con la poesia è come se si entrasse in una sorta di intimità con la lingua, e questo richiede una particolare responsabilità, ma anche una disposizione meditativa, un esercizio del vedere e dell’immaginare non disgiunto dal pensare intorno a quel che più importa.

Da decenni lavora fuori dal Salento. Com’è il Salento nella lontananza?

Nella lontananza, almeno per me,  del Salento diventa centrale e impetuosa la luce, con tutte le sue variazioni, che è luce anche marina, ma che sta nei paesi, sulle pareti delle case, sulle facciate delle chiese, nelle strade. Con la luce, le voci umane, le flessioni dei tanti dialetti. Ma quello che appare, nella lontananza, con più insistenza, è il mare, con i suoi colori e le sue voci, e poi le tante forme del paesaggio costiero. Naturalmente ciascuno ha poi, con le immagini della sua terra, le immagini che vengono dal tempo dell’infanzia e dell’adolescenza vissuto in quella terra. Ma c’è stata una frattura per dir così anche immaginativa, molto dolente, e aspra, nella rappresentazione del Salento che uno si porta dietro, quand’è lontano :  gli ulivi, che fino ad alcuni anni fa erano davvero emblema luminoso di un paesaggio, e ora sono figura della distruzione, della malattia, dell’abbandono, e anche esempio triste di come non si riesca, politicamente, ad agire nella giusta direzione e tempestivamente. Anche nella lontananza, è una grande pena vedere nella mente le due immagini contrapposte: le distese folte di ulivi del passato, l’atroce cimitero vegetale di oggi.

Ci sono poeti salentini verso i quali avverte una maggiore vicinanza?

Direi che la poesia di Vittorio Bodini è l’esperienza alla quale mi sento più vicino: sia per la ragione che anche per lui la poesia è solo uno dei linguaggi oggetto del proprio impegno, accanto ad altri linguaggi, sia perché per lui, come per me, l’esperienza del tradurre poesia, e del tradurre i classici, è in diretto rapporto con l’esperienza della scrittura poetica. Per il resto, il Salento, fortunatamente, è una terra ricca di esperienze belle relative alla poesia e alla narrazione. Ci sono state anche stagioni di fervore molto attivo nel campo della poesia e delle arti. Penso ai tanti artisti figurativi del secondo dopoguerra, penso, per gli anni Ottanta, alla travolgente passione per la poesia, per la  sua diffusione e conoscenza, che ha avuto un personaggio come Antonio Verri.

Il Salento della memoria. Il Salento della realtà. Quali sono le analogie e quali le differenze.

Chi sta lontano da una terra, anche nei ritorni, tende a privilegiare le immagini della memoria più che quelle della realtà: può anche accadere che le prime si sovrappongano alle seconde e le offuschino. Per questo divario, chi torna periodicamente a un luogo per poi starne lontano finisce col dare rilievo a quel che appare meno mutato nel tempo, cioè il paesaggio naturale (certo, non quello urbano): è la bellezza di quel paesaggio che continua ad esercitare una forte attrazione. Ma anche questa è un’illusione: quel paesaggio naturale è anch’esso mutato, spesso per incuria degli uomini, e sono mutati nel tempo i modi del nostro sguardo e delle nostre percezioni. Se poi, sul piano generale, si vogliono fare dei confronti, le differenze sono più forti delle analogie. Nel Salento della memoria c’è per me una cultura contadina e artigiana, con le sue comunità, il suo linguaggio, i suoi rituali, le sue forme di cultura. Ma c’è anche una società della migrazione, con quel significava quanto a partenze e ritorni, sradicamenti, spaesamenti,  e artificiose, disordinate,  riambientazioni. Credo che oggi sia importante non rimuovere quelle culture di un tempo che era certo un tempo di povertà ma che aveva una sua riconoscibilità di costume, di relazioni umane.

Lecce, la sua adolescenza, la scoperta della città e delle biblioteche. Un ricordo.

Qualcosa di questo mio rapporto con Lecce ho raccontato nel libro pubblicato due anni fa da Manni Torre saracena, al quale ho messo il sottotitolo di Viaggio sentimentale nel Salento. Nell’infanzia il primo passaggio da Lecce fu quando con mio padre, partendo che era ancora buio con la littorina da Copertino, si venne in città alla fiera di Santa Lucia per comperare i pastori da mettere nel presepio. Poi venni a dieci anni per l’esame di ammissione alla scuola media: consegnato troppo presto il tema, mi misi a vagabondare per le strade della città, in attesa della corriera, e mi smarrii nelle vie, facendo una prima dolorosa esperienza  di spaesamento. Poi con gli anni la città mi divenne familiare. La Biblioteca provinciale l’ho frequentata nell’adolescenza: era un luogo molto bello, accogliente, soprattutto mi piaceva leggere le voci della Treccani o vecchie storie letterarie. Ho appreso lì, in certi quieti pomeriggi ombrosi, quanto sia benefico per la cura della propria interiorità sostare all’ombra dei libri: frequentando poi a lungo per i miei studi, negli anni dopo la laurea, la Bibliothéque Nationale di Parigi, in rue Richelieu, e altre grandi Biblioteche, come  a Milano l’Ambrosiana o la Braidense, mi venivano spesso in mente quei pomeriggi nella Biblioteca provinciale di Lecce, pomeriggi di un’educazione al dialogo con i libri, con i mondi che i libri dischiudono. Un altro aspetto della formazione salentina che voglio ricordare è quell’abitudine, propria degli anni Sessanta, a trovarsi tra amici in un piccolo gruppo deambulante per ore in una piazza, su e giù, discutendo e discutendo di letteratura e di politica. Circoli culturali all’aria aperta.



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