Vittorio Pagano, il poeta e la sua città: tutte le poesie dello scrittore leccese

Musicaos editore, nella collana “ Novecento in versi e in prosa”, diretta da Antonio Lucio Giannone, pubblica tutte le opere del poeta salentino, a cura di Simone Giorgino.

Vittorio Pagano appartenne a Lecce e questa città appartenne a Vittorio Pagano. Totalmente, visceralmente. A Lecce nacque nel 1919 e a Lecce morì, sessant’anni dopo. Poeta dagli orizzonti europei e traduttore dalla sensibilità affiorante, a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso cominciò le sue collaborazioni con “Vedetta mediterranea” e “Libera Voce”, frequentò l’Accademia Salentina fondata nel 1948 da Girolamo Comi a Lucugnano e collaborò con “L’Albero”. Per dieci anni, dal ’56 al ’66, diresse l’inserto letterario del “Critone”, curando anche i “Quaderni del Critone”, una collana in cui comparvero, fra gli altri, testi di Carlo Betocchi, Piero Bigongiari, Mario Luzi, Alfonso Gatto, Romano Bilenchi, Alessandro Parronchi.

Recentemente, per Musicaos editore, nella collana “ Novecento in versi e in prosa”, diretta da Antonio Lucio Giannone, Simone Giorgino ha raccolto, sotto il titolo di Poesie, tutte le opere poetiche pubblicate in vita, da tempo ormai irreperibili: Calligrafia astronautica, I privilegi del povero, Morte per mistero, Zoogrammi, una produzione che va dal 1958 al 1964.

Pagano, Lecce

Vittorio Pagano, scrive Simone Giorgino nell’introduzione al volume, è stato l’ultimo custode di una koiné ermetica in un’epoca, fra il secondo dopoguerra e la fine degli anni Sessanta, “segnata da tante adesioni o conversioni al neorealismo prima, e dall’emersione delle istanze neoavanguardistiche poi; ed è stato un abile cesellatore delle forme chiuse quando ormai si iniziava a diffondere un dettato sempre più lasco o magmatico”.

Pagano, Lecce. Un poeta, la sua città. Simone Giorgino riporta il ricordo del pittore Lino Suppressa: passeggiava per le vie della città “come in trance, con l’eterna sigaretta tra le dita tirando bocconi di fumo come fossero pane, somigliante, nell’aria assorta, al dottor Gachet della digitalis purpurea; la coppola, il borsello, la sigaretta, l’andatura che cercava l’itinerario, era tutto il suo corredo di viaggio”.

Un poeta, una città. Nella relazione finale per un premio di poesia, Mario Luzi annotò, come riportato da Giorgino, la ricchezza dell’estro di Vittorio Pagano che nei quattro volumi dei Privilegi del povero “rianima di una vertigine barocca genuinamente leccese la fitta trama dell’esprimibile e dell’inesprimibile che ci ha tramandato l’anima decadente”.

Due anime complementari

Ma se l’uomo Pagano ha radici profondissime nella sua città, il poeta di patrie ne ha due. L’altra è terra di Francia, cercata e trovata nel viaggio che compie nei testi degli autori che traduce. Ha detto: “L’Italia è la patria in cui consisto, la Francia è ragione del mio sentirmi europeo, vertice del mio amore del mondo”.

La sua poesia risente “dell’originale alchimia generata dall’interazione di queste due ‘anime’ complementari”, rileva puntualmente Simone Giorgino: quella del meridione, della terra madre, che determina la vertigine barocca che attraversa l’opera di Pagano, e quella francese “che agisce soprattutto attraverso la ricercatezza dell’impianto metrico-ritmico oltre che per il recupero in chiave contemporanea del Mauditisme che aleggia nei suoi versi”.

Lecce, la sua città. Un appartamento nuovo, al sesto piano, in via Imbriani. Un balcone di 13 metri, due verande, il termosifone, l’ascensore, e perfino il garage. Intorno la campagna. Il mare di San Cataldo all’orizzonte. Così scriveva a Oreste Macrì in una lettera del ’59. Nell’appartamento di fronte abitava Giovanni Bernardini. Fra le pareti di quelle case, ricordava Bernardini, passarono Maria Corti e Alfonso Gatto, Vittorio Bodini e Nino Palumbo.

L’indifferenza del suo tempo

Ma a volte ai poeti capita l’avventura dell’incomprensione da parte del proprio tempo. A Vittorio Pagano è accaduto. Intorno a lui si spalancò un vuoto di indifferenza da parte della critica. In una lettera a Macrì, riportata da Giorgino, Pagano dice che la sua terra natia lo vuole defunto da un pezzo, che lo ha cacciato via dal Parnaso locale. Si dice “rabbiosamente rassegnato” ad una damnatio memoriae inevitabile.

Sarà necessario aspettare un maturare dei tempi. Dopo la scomparsa di Pagano, scrive Giorgino, inizia un lento e accidentato percorso di recupero del patrimonio lasciato in eredità.

Però mancano i testi. Manca un’edizione che consenta una conoscenza non circoscritta  della sua opera. Con l’edizione scientificamente curata da Simone Giorgino, si rende quello che a Vittorio Pagano è dovuto: il riconoscimento di uno spessore letterario realizzato giorno per giorno, verso per verso, respiro per respiro.



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