Contro gli stereotipi: si conclude YallaOff, la rassegna di cultura araba a Lecce

Le tre serate, dal 21 al 23 febbraio, hanno visto la partecipazione di registi e intellettuali che hanno messo in discussione i cliché sul mondo arabo.

Scontri generazionali, guerre personali e viaggi incessanti. Forse non sono questi i termini ormai convenzionali del modo in cui si parla di migrazione, ma è la chiave di lettura che YallaOff decide di dare ai propri spettatori in tre serate decisamente intense.

“Padri, figli e la terra tra di loro” è la rassegna di cultura araba, che si è conclusa lo scorso sabato (ospitata dal CineLab e della Biblioteca Bernardini) e che sviscera molti dei cliché sul mondo arabo, proponendo i legami familiari, l’intimità dei racconti e la tragicità delle scelte di vita in una prospettiva tutta sua, che non può che lasciare il segno su un pubblico forse avvezzo ad altre immagini dell’altra sponda del Mediterraneo

È il titolo del libro di Hisham Matar, vincitore del premio Pulitzer 2017, a dare il nome alla rassegna che raccoglie l’eredità dello scritto autobiografico dell’autore libico.

A legare le serate è il viaggio, che ci porta dal Marocco alla Siria, passando per tutto il Magreb. Le opere scendono nel profondo e snocciolano questioni che sembrano riguardare le migrazioni, ma che rivelano la loro portata universale, a tratti molto intima, ma sempre potente.

Un viaggio di migrazione al contrario, il Talien di Elia Moutamid

Quasi come se fossimo seduti dietro ai due personaggi, insieme a loro a bordo del camper che attraversa tre paesi, Talien (2017) mette in scena un duplice viaggio di migrazione. Il film di Elia Moutamid, regista e protagonista, reinterpreta la formula classica del road-movie in chiave autobiografica, servendosi del paradigma del documentario per condividere l’autenticità del racconto del padre, del tutto spontaneo e incredibilmente vero.

Il film racconta la storia di un padre marocchino, Aldo, che affronta il viaggio di ritorno dalle campagne bresciane che l’hanno accolto per quasi quattro decadi alla patria Marocco, raccontando le preoccupazioni di un padre che cerca di dare il meglio alla sua famiglia. Dall’altro lato c’è il viaggio del figlio, che in quelle stesse campagne bresciane ci è nato e cresciuto. Il suo non è un ritorno verso la patria ma dalla patria verso le sue radici, è piuttosto il viaggio di incontro generazionale. Elia è a tutti gli effetti un trentenne italiano che deve fare i conti con una società difficile. Ed è qui che l’intimità del racconto su strada incrocia i risvolti sociali dell’Italia odierna.

Un film di facile approvazione che conquista il pubblico con una ricetta ben congegnata e porta sullo schermo il lato intimo del rapporto tra padre e figlio con il tema migrazione a fare da sfondo.

Weldi (2018), una tragedia familiare che aggredisce chi guarda

Dal sedile posteriore del camper di Aldo e Elia, ci spostiamo a casa di Riadh, l’operatore di carrelli nel porto di Tunisi, dove vive con la moglie Nazli e il figlio Sami. Qui il registro cambia sensibilmente e se la prima serata era tutta votata all’intimità dei racconti di un padre immigrato, la seconda aggredisce lo spettatore con la tragicità esuberante di un padre che vede il proprio figlio unirsi ai combattenti siriani. Weldi (2018) è il film di Mohammed Ben Attia, acclamato dalla critica internazionale, una storia che rovescia la medaglia e che racconta il dolore straziante di un padre, invece che le motivazioni del figlio.

Il regista tunisino mette in scena una crisi totale e totalizzante di una famiglia della classe media che è costretta a fare i conti con la perdita di qualsiasi ideologia, quasi una crisi di identità. È il problema della società odierna, non del mondo arabo, a spingere il figlio ad unirsi ai combattenti siriani e a trainare il dolore che scava il volto di Riadh, scena dopo scena. Un film che annichilisce a colpi di disorientamento, che fa riflettere sul problema terrorismo, un universale che non interessa solo l’Occidente.

Poesia araba delle rivoluzioni e oltre

La serata conclusiva è una rivelazione di intenti e combina l’intimità delle cose di tutti i giorni di cui molte poesie parlano alla tragedia della guerra da cui questi “migranti” fuggono. Le letture combinate di Widad Nabi, accopagnata da Nabil Bey e da Mariela Cafazzo, evocano una tragedia schiacciante, che pesa sulla quotidianità del loro esilio e si combinano alla musica che accompagna per creare riflessioni che si insinuano sottopelle.

È il racconto degli ultimi anni attraverso gli occhi dei poeti di cui portano ancora le cicatrici a unire la raccolta In guerra non mi cercate.

Poesia araba delle rivoluzioni e oltre. Un invito alto a riflettere sull’umanità della tragedia e sulla disumanità dei nostri tempi, creando una narrazione antagonista a quella veicolata dai media.



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