Ghetonìa vicini e lontani, il gruppo che abbraccia uno spazio musicale che va oltre ogni staccionata

Mai paghi delle antiche gratificazioni e degli antichi successi le canzoni dei Ghetonìa continuano a parlare d’amore, di lavoro e sofferenze ancestrali.

È trascorso un decennio esatto da “Riza” (2009), l’album dei Ghetonìa che canta di radici, di appartenenza, come della ragione intima stessa di esistenza del gruppo. Eppure proprio quella raccolta di brani ci induce a parlare di deradicamento e di decontaminazione.

La via, a ben sentire, era stata ampiamente tracciata dal precedente “Terra e sale”. Vi si trovavano canzoni in dialetto salentino e in griko, talvolta su testi popolari anonimi e altra volta su versi di Vito Domenico Palumbo, il poeta e grecista calimerese dell’Ottocento: un’oscillazione che si palesò immediatamente come significativa della più ampia e intelligente nozione di geografia poetica, ancor prima che musicale, dei Ghetonìa. Roberto Licci e Salvatore Cotardo compresero che era necessario superare un punto di vista, o di ascolto, angustamente localistico, con il convincimento che la “salentinità” sia anzitutto “mediterraneità”.

Collocarsi al centro dell’Adriatico

Era inteso che bisognava dare aria ai ritmi altrimenti monocordi della tradizione popolare salentina collocandosi anche idealmente al centro di quell’Adriatico sul quale il gruppo musicale era nato quasi trent’anni fa. Quella dei Ghetonìa è contaminazione nei limiti in cui le radici sono irrorate di sound macedone, albanese, di profumi d’Epiro e di altri olibani: ma è decontaminazione nel momento in cui assume una fisionomia che non lascia spazio a identificazioni etnico-musicali univoche e, invece, si dispone a una irripetuta e irripetibile maniera espressiva.

È decontaminazione (stavolta nel senso clinico-ambientale del termine) lì dove i Ghetonìa rigettano gli stilemi dal successo facile e, controcorrente, si stringono a un pubblico di ascoltatori raffinato e esigente. Dove sono quindi i Ghetonìa? Da nessuna parte e da tutte le parti. Al più si potrebbe dire che rappresentano un terzo polo, parimenti equidistante dal modello commercialissimo della Notte melpignanese e dalla fedeltà filologica alla tradizione popolare salentina.

L’iniezione jazz

Ma la potente iniezione jazzistica di “Riza” manda davvero in cortocircuito ogni strumento di orientamento. Si prendano, per verificare, dei precisi brani. Nella fattispecie, ai ripetitivi e stancanti arrangiamenti di una canzone tradizionale come “La rondinella”, i Ghetonìa oppongono quattro pieni minuti di intermezzo strumentale in puro stile jazzistico: un’elaborazione tanto spinta del materiale melodico e ritmico da farsi schiaffo alle attese del pubblico meno smaliziato. In altre parole, la rondinella volteggia in una sorta di vuoto, in un cosmo senza gravitazione: un effetto di straniamento dovuto anche al prolungato silenzio di Roberto Licci, con quel suo timbro così accentuatamente “dialettale” che per attesa, durante la lunga improvvisazione, ingenera sete o anelito di un ritorno di voce a cui aggrapparsi. È perciò anche nell’uso espressivamente intelligente del tacere della parola che l’arte dei Ghetonìa si allontana, senza possibilità di passi indietro, dalla canzonetta popolare, fino a varcare la soglia di una raffinatezza di modi cordialmente elitaria. Un discorso simile può farsi in riferimento all’ultima versione di “Orrio to fengo”, dove s’impone un linguaggio pluristratificato, con addizione di morfemi ritmici e melodici sempre nuovi, sì che quando si pensa di aver raggiunto un paesaggio sonoro geograficamente ben determinato, ci si trova d’improvviso in tutt’altro luogo. La stessa delicata vena melodica di Salvatore Cotardo, il compositore del gruppo, anziché soffocata, ne è felicemente amplificata.

L’adozione di nuovi strumenti musicali

Un determinante passo avanti è stato infine l’adozione di strumenti del tutto estranei alla tradizione più corriva del Salento musicale: ci riferiamo alla ricerca sul suono effettuata col non proprio maneggevole clarinetto basso o con un’ampia varietà di flauti.

Le canzoni dei Ghetonìa continuano a parlare d’amore, di lavoro e sofferenze ancestrali, ma il “vicinato” a cui si ispira il nome di questo intramontabile gruppo oggi abbraccia uno spazio musicale che va ancor più oltre la staccionata del cortile di casa, mai paghi delle antiche gratificazioni, degli antichi successi.



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