Rifò: la moda sostenibile ha un nuovo nome

La startup italiana, fondata dai pratesi Niccolò Cipriani e Clarissa Cecchi, ha da poco lanciato la sua collezione di maglieria e accessori rigenerati.

Con il diffondersi di una cultura improntata a sistemi di consumo consapevoli, sono sempre più numerosi i brand di abbigliamento che scelgono di produrre i propri capi ispirandosi ai princìpi della sostenibilità. La startup italiana Rifò, fondata nel dicembre 2017 dai pratesi Niccolò Cipriani e Clarissa Cecchi, ha da poco lanciato la sua collezione di maglieria e accessori rigenerati per la stagione A/I 2018-2019, realizzata unicamente con fibre tessili provenienti da indumenti usati.

Berretti, guanti, sciarpe e persino coperte, in lana e in cashmere 100% rigenerati: l’intera collezione invernale si può realmente fregiare del prestigioso marchio made in Italy.

Il progetto Rifò è nato dall’intraprendenza dei suoi fondatori e dal loro profondo interesse verso una moda etica e sostenibile. Niccolò e Clarissa hanno finanziato la collezione invernale con una fortunata campagna di crowfinding, che ha fruttato circa 11˙800 euro, il 20% dei quali di provenienza straniera. Un dato che lascia ben sperare e un significativo passo avanti anche rispetto al ricavato della precedente collezione estiva, che aveva raccolto 6˙200 euro, con un 25% di donazioni estere.

Rifò utilizza un efficiente processo di rigenerazione delle fibre tessili, nato a Prato un secolo fa. La produzione dei capi di abbigliamento si basa sul sistema artigianale a calata, un metodo moderno e all’avanguardia che consente di ridurre al minimo lo spreco dei materiali, garantendo al tempo stesso risultati di qualità elevata. In questo modo, Rifò dona una seconda vita a indumenti usati raccolti in giro per il mondo. Rispetto alla realizzazione di un capo nuovo, si stima che la nuova metodica produttiva permetta di risparmiare circa il 90% del consumo di acqua, il 70% di quello di energia, il 100% di quello di coloranti e di ridurre del 95% le emissioni di anidride carbonica.

Per farsi un’idea di quanto la produzione di un capo di abbigliamento incida sull’ambiente, non ci si può esimere dal considerare il materiale di cui è composto. Strano a dirsi, le fibre che causano un maggior impatto sono proprio quelle naturali per definizione. Un recente report sulla sostenibilità, condotto dalla piattaforma di shopping online Lyst, indica come il cotone sia uno dei materiali meno eco-friendly: circa il 6% dei pesticidi mondiali è destinato proprio alla sua coltivazione. Ma i danni provocati dai fertilizzanti non si limitano all’ambiente: l’Environmental Justice Foundation ne ha analizzato l’impatto sull’uomo, stimando un numero di avvelenamenti da pesticidi che si attesta tra l’1 e i 5 milioni di casi all’anno.

Trovare una risposta alle problematiche sociali e ambientali, proseguire nella ricerca di strategie produttive etiche e sostenibili, individuare materiali green e alternativi (cotone bio, canapa, neoprene vegetale). Sono questi gli obiettivi che, come il neonato brand Rifò, sempre più nomi della moda si stanno impegnando a perseguire. E i vantaggi, in questo senso, sono molteplici: si diminuisce l’inquinamento da pesticidi e si frena il cambiamento climatico, si riducono le emissioni di gas serra e si producono capi di abbigliamento sicuri e di eccellente qualità.



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