
Barletta è una città di mare, vento e sudore. È qui che il 28 giugno, nel silenzio di un pomeriggio di inizio estate, nasce Pietro Mennea. Un bambino come tanti, con gambe magre, occhi seri e quella testardaggine tipica del Sud. Nulla lasciava immaginare che sarebbe diventato una leggenda. Esile, con un fisico “non straordinario” per uno sprinter, Mennea ha fatto della tenacia e della capacità di allenarsi duramente una carta vincente. Niente piste moderne, niente sponsor, niente privilegi. Solo una fame profonda fatta di silenzio, sudore e riscatto, quella che solo certi ragazzi del meridione ‘dimenticato’ conoscono davvero. La fame di chi sa di non avere niente da perdere, ma tutto da costruire. E così iniziò a correre. Di km sulle piste, il pugliese ne ha macinati tanti, così quante sono state le vittorie conquistate non solo nel mondo dello sport, ma anche in quello della società civile una volta appese le scarpette da velocista al chiodo.
12 settembre 1979: quando l’Italia volò con lui
Città del Messico, 1979. Pietro entra in pista con lo sguardo duro. Lo chiamavano “la Freccia del Sud”, ma quel giorno fu qualcosa di più: fu il simbolo di un’Italia che non si arrende.
Parte. Spinge. Si piega. Si rialza. Gli ultimi 100 metri sono leggenda: il cronometro si ferma a 19″72. Record del mondo nei 200 metri piani. E in quel momento, il mondo si fermò. Per guardare quel ragazzo magro di Barletta che aveva fatto l’impossibile.
Quel numero — 19 e 72 — si incide nel tempo come un tatuaggio nell’anima dello sport. Ma quel tempo non racconta tutta la storia. Non racconta le albe passate a correre da solo sulla sabbia. I crampi. Le umiliazioni. Le porte chiuse. Non racconta la solitudine. Né il peso di rappresentare un paese intero con addosso solo una canottiera azzurra e un cuore enorme. Non racconta l’Italia degli anni ’70, che imparava a camminare mentre lui imparava a volare.
Per oltre tre lustri, dal 1979 al 1996, ha conservato il record conquistato a Città del Messico, poi si è aggiunto l’oro olimpico ai Giochi di Mosca nel 1980. Solo 19 giorni prima aveva conseguito una laurea in Scienze Politiche. Aveva già iniziato a studiare Legge. Non si accontentava mai: campione in pista, studente in aula, uomo in trincea. “Chi corre veloce”, diceva, “non può permettersi di pensare lento”.
I record che nessuno ha dimenticato
Tra i suoi successi si annoverano anche 5 trionfi ai Giochi del Mediterraneo, quattro ori ai Campionati Europei, un argento e un bronzo ai mondiali di atletica.
Una vita fatta di treni presi all’alba, panini mangiati in piedi, occhi bassi e schiena dritta. Nessun gossip, nessuna sbruffoneria. Solo lavoro, studio, dedizione. Pietro non era un divo. Era un esempio.Dopo aver conseguito una laurea in Scienza politiche, una in Giurisprudenza e un’altra ancora in Scienze Motorie, abbandonate le piste di atletica, ha svolto la professione di avvocato e dottore commercialista, oltre a quella di docente universitario.
Ha occupato uno scranno a Bruxelles al Parlamento Europeo e, per alcuni mesi, alla fine degli anni ’90, ha ricoperto la carica direttore generale della Salernitana Calcio.
La sua corsa più bella fu quella verso gli altri. Con la moglie Manuela fondò una onlus per aiutare chi non aveva voce, chi soffriva in silenzio, chi voleva farcela, ma non sapeva da dove iniziare.
Nel 2012 gli fu diagnosticato un tumore al pancreas. In silenzio, come aveva sempre fatto, continuò a lavorare. Non cercò applausi. Né commiserazione. Continuò a correre, fino all’ultimo giorno. Morì il 21 marzo 2013, a Roma. In punta di piedi. Come chi non ha mai voluto disturbare, ma ha lasciato un’eco profonda.
Cosa resta, davvero, di Pietro Mennea
Resta una pista vuota, ogni 12 settembre, quando l’Italia celebra il Mennea Day.
Resta un nome inciso su scuole, palestre, strade.
Ma soprattutto, resta un modo di stare al mondo.
Mennea ci ha insegnato che puoi partire da qualsiasi punto, e arrivare ovunque, anche sul tetto del mondo.