Il professore e la lezione, quel momento magico sospeso sul precipizio tra accidia e creatività

Cos’è l’accidia per un docente? È stanchezza incardinata nella comodità della ripetizione di una lezione sempre uguale anno dopo anno, prescindendo dalla varietà degli alunni e dalla varietà delle situazioni quotidiane. La terza puntata di School River.

Prosegue il viaggio tra i vizi e le virtù della scuola pubblica italiana del professor Alessandro Macchia*. Dopo aver messo al centro della scena e analizzato prima la figura del dirigente scolastico e poi quella del docente, nella terza puntata di School River si torna a parlare di professori. L’indagine, questa volta, non si sofferma sui rapporti tutti interni alla categoria, quelli che si consumano tra l’aula docenti e i corridoi scolastici, ma sul rapporto speciale e privilegiato che dovrebbe instaurarsi  tra docente e discente in quel momento ‘magico chiamato ‘lezione‘. Un momento così unico che per Pavel Florenskij è da equipararsi ad un vero e proprio genere letterario in grado di colmare con la creatività e con l’incanto quel fossato a prima vista incolmabile della trasmissione del sapere. Un maestro non può mai abdicare a quella missione continua che lo porta dritto al cuore e alla mente del suo allievo. Se lo facesse correrebbe il rischio di finire all’Inferno, nel girone degli accidiosi.

Di chi ha abdicato

Nel corso di una tradizionale lezione sull’Inferno o sul Purgatorio dantesco si ripeterà la seguente situazione. L’alunno di undici o di dodici anni, al suo primo presumibile approccio alla Divina Commedia, trascorrerà con pochi dubbi fra l’iracondia e l’avarizia, fra la gola e la superbia e l’invidia. Ma, giunto alla lussuria e all’accidia, vi si soffermerà un poco perplesso. Al massimo, il più smaliziato avrà da dire qualche amenità sulla lussuria, ma sull’accidia calerà il silenzio. E poi si alzerà una domanda: «Professore, cos’è l’accidia?».

E qui il docente se la caverà alla buona e con fare sbrigativo, associando l’accidia alla pigrizia. È ovvio che la scena avrà una coda, espressa o sottaciuta. Il ragazzino usualmente inquadrato come un pigro perché inottemperante al dovere dei compiti a casa comincerà a pensare che la sua condotta scolastica sia un peccato grave. In realtà, se l’accidia fosse per davvero la semplice pigrizia, la condanna all’inferno sarebbe un’enormità. E se la pigrizia è solitamente riconosciuta come uno dei fantasmi che si aggirano fra i banchi delle aule scolastiche, passa inosservato che spesso gli accidiosi sono proprio i ghostbusters. Cos’è dunque l’accidia? E quando si manifesta a scuola? Or bene, è accidia finanche quella che soffoca la fiamma che rende l’insegnamento una missione: è l’abbandono a un’attività di routine, al disimpegno, all’approssimazione e alla superficialità, all’adagio che pretende che “migliorare quel tale alunno è impossibile”.

Ricordo molti anni fa che, di fronte alla mia ostinazione a far appassionare alla Storia un ragazzino della classe prima, un collega con oltre trent’anni di insegnamento affermò che non valeva la pena sforzarsi: aveva avuto come alunni altri due fratelli e non ne aveva ricavato mai niente. Chiuse la conversazione con queste poco opportune parole: «Sono così di famiglia!» È disincanto? No. È rinuncia. È stanchezza incardinata nella comodità della ripetizione di una lezione sempre uguale anno dopo anno, prescindendo dalla varietà degli alunni e dalla varietà delle situazioni quotidiane.

Pavel Florenskij arrivava ad affermare che la lezione è un vero e proprio genere letterario, non assimilabile alla lettura di un libro di testo da dietro la cattedra: il decorso di una lezione è articolato come organismo, aggiungeva, ed è tutt’altro che meccanicistico. Insegnare vuol dire creare dei continui scarti, nel senso di cambiamenti repentini di strategia motivati dalle stesse contingenze. Per parafrasare in qualche modo Flaiano, potremmo pure dire che la linea più breve a disposizione di un insegnante per arrivare a uno scolaro non è quella retta, bensì l’arabesco. È in questo che giace quella dimensione creativa che si dice spesso caratteristica dell’insegnamento. In caso contrario diventa lavoro d’ufficio.

Quanta responsabilità è dunque nel sistema scolastico tout court e quanta invece nel docente individuo? Esistono delle zone d’ombra molto importanti nella scuola. E derivano di frequente proprio dall’abdicazione a un coerente impegno umano e a quell’integrità morale che dovrebbero elevare il docente a modello esemplare. Se l’insegnamento è perciò intrinsecamente azione, v’è bisogno di uno scatto, di uno sforzo personale, per quanto faticoso e immenso possa sembrare, per ritrovare il senso della vocazione. A quel punto, quando l’alunno domanderà chi sia l’accidioso, il professore ammetterà: «Ero io quando vi rispondevo senza aver giudicato me stesso e il mio torpore davanti a voi; ero io quando, schiacciato dalla frustrazione e dal sonno dello spirito, trovavo solo parole per la diceria, la calunnia e il pettegolezzo». Sarebbe alfine come ammettere che purtroppo si può conoscere senza comprendere.

*Le considerazioni sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.



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