Era 3 agosto 1981, quando nelle redazioni romane comincia a circolare la notizia di un omicidio. Il corpo senza vita ritrovato in un casolare abbandonato, non distante dall’ippodromo delle Capannelle, era quello di Roberto Peci. Non un nome qualunque. Era il fratello di Patrizio, il primo pentito della storia delle Brigate Rosse. Si era concluso con una condanna a morte il sequestro del giovane antennista, durato 55 lunghissimi giorni. Lo stesso tempo passato in “prigione” da Aldo Moro. Stessa mano, stesso modus operandi, stessa tragica fine.
Almeno undici i colpi sparati alla testa, al petto (centrando cuore e polmoni), alle braccia che aveva alzato per proteggersi nonostante avesse le mani strette dalle manette. Accanto al corpo furono trovati alcuni bossoli calibro 7,65 e un cartello «Morte ai traditori», ma l’unica colpa del giovane di San Benedetto del Tronto era il “sangue”, quello condiviso con il fratello maggiore che, dopo la sua cattura, aveva deciso di collaborare.
Le sue confessioni, raccolte dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, avevano inferto dei colpi durissimi alle Brigate Rosse, tra arresti eccellenti, covi scoperti e il massacro di via Fracchia a Genova in cui morirono quattro terroristi.
Patrizio, l’infame
«Dopo sette anni che uno uccide, che ferisce e si accorge che quello che sta facendo non è una cosa giusta, è un trauma immenso. Per cui, quando mi hanno arrestato, ho pensato che la cosa più sensata che potessi fare in quel momento era di evitare altri morti e in quel caso ho dovuto far arrestare dei miei compagni» raccontò Patrizio, in una intervista ai microfoni di Sergio Zavoli.
«Denunciare i tuoi compagni ti provoca anche più problemi dei rimorsi per le vittime che hai fatto. Si tratta di mandare in galera – forse per sempre, e ormai sai quanto è brutta la galera – i compagni con i quali fino a ieri hai mangiato, scherzato, creduto, combattuto e giocato a biliardino» confidò nel libro “Io, l’Infame” in cui parla anche del fratello rapito e ucciso per vendetta, per punirlo di non aver tenuto la bocca chiusa.
«Ogni volta che una scheggia di quella storia mi raggiunge, una ferita si riapre. Mi sono accorto solo per caso che io sono l’unico. L’unico che negli anni di piombo abbia abitato entrambi i gironi dei dannati: sia fra le vittime che fra i carnefici, sia fra chi ha amministrato la morte, sia fra chi ha conosciuto la morte, quella di una delle persone più care, quella che ti fa conoscere il senso della perdita irrevocabile»
Il rapimento…
Che il 25enne non sarebbe più tornato a casa, dalla sua famiglia e dalla moglie incita di tre mesi, era chiaro fin dal 10 giugno, quando sparì nel nulla da San Benedetto del Tronto (lo stesso giorno a Vermicino, un bambino di appena sei anni era caduto in un pozzo artesiano di soli venti centimetri. Ancora buio su un’altra tragedia, quella di Alfredino Rampi). Bisognava lanciare un messaggio ai compagni che pensavano di collaborare con lo Stato. Chi parla muore. Per recapitarlo fu usato Roberto, accusato di essere un infame come il fratello Patrizio, esponente di spicco dell’organizzazione terroristica considerato – dopo la morte del presidente della DC – tra i 20 brigatisti più ricercati d’Italia, anche se non aveva preso parte al sequestro.
Il 25enne, che sognava di diventare un calciatore, fu attirato in una trappola con una scusa. Il giorno prima era stato contattato da una persona. Si era presentato come un ingegnere di Macerata che aveva preso in affitto una villetta per l’estate e aveva bisogno di qualcuno che montasse un’antenna per il televisore a colori. Alle 18.15 con la Panda celeste Roberto imbocca la stradina indicata nella chiamata, ma finisce rinchiuso nel bagagliaio di una Fiat 127 rossa.
…la prigionia e l’esecuzione
Durante la prigionia fu interrogato più volte. Nell’ultimo video i suoi sequestratori, capeggiati da Giovanni Senzani chiesero a Peci di mostrarsi addolorato durante la lettura della sentenza di morte, assicurandogli falsamente che la condanna non sarebbe stata eseguita. In realtà, era stata annunciata con il comunicato n.5. Il filmato fu inviato alla Rai che rifiutò di mandarlo in onda.
Roberto venne ucciso, sempre a favor di telecamera, il 3 agosto 1981. Senzani, uomo da sempre accusato di aver trascinato le Br nel vicolo cieco di una violenza sempre più folle e sanguinosa, fotografò il momento dell’esecuzione, avvenuta con 11 colpi di mitra in un casolare abbandonato nella campagna romana, in via Fosso dello Statuario.
Non ebbe mai la possibilità di conoscere Roberta, la figlia che sarebbe nata sei mesi dopo la sua morte.
