Lecce, una città sospesa. Il breve viaggio di Giorgio Caproni

Dopo aver incontrato Girolamo Comi e Vittorio Pagano, il poeta andò via da Lecce. Non fece in tempo nemmeno a visitare la città ma in suo articolo si chiese perché non fosse Firenze ad essere definita la Lecce dello stile toscano

Lecce. Sono le cinque e mezzo del mattino. Per la partenza del treno manca un’ora. Sulla piazza della stazione non c’è nessuno. Il poeta Giorgio Caproni entra in un chiosco-bar quasi al centro della piazza. “Entro più che per bere, per vedere qualche volto”, dice. Nel bar c’è odore buono di caffè, operai che fumano e parlano di donne e di sport.

A Lecce, Caproni ha incontrato Girolamo Comi, “sempre con quella sua aria da gran signore dello spirito. Una delle più belle figure ch’io conosco. Seduto su una poltrona ottocentesca in un angolo buio del salone, con le gambe accavallate e i pollici nei taschini del panciotto”, pareva il ritratto di se stesso. Ha incontrato Vittorio Pagano, che gli ha consegnato “un miracolo di poesia tradotta. Il miracolo di Teofilo di Rutebeuf”.

Caproni entra nella stazione. Sale sul treno. Vuoto. Dal finestrino aperto vede facciate gialline e ocra, appena appena color tabacco, come il quadernetto del Critone (un periodico di diritto che aveva un supplemento letterario curato da Vittorio Pagano) che ha in tasca.

“ L’aria è impollinata d’un sole piccante ma leggero leggero e d’un odore espanso anch’esso giallino”, un odore che, nel Sud, dice di aver sentito spesso. “In Liguria lo chiamano, nell’entroterra, l’odore della ‘sciàttera’, un’erba che par nascere secca e che i ragazzi fumano quando non hanno tabacco. Un odore come di finocchio, estivo, leggerissimo, pepato, gradevole e ruvido ad un tempo”.

La città osservata, raccontata, da un poeta come Caproni, sembra un luogo sospeso nell’aria, una scena dipinta. La vita della stazione è tutta nei movimenti ritmici della sua prosa.

Il capostazione alza la paletta verde. Il treno fischia e si muove lentamente. Accelera, scandisce gli aghi degli scambi, prende la sua elegante rincorsa che fa rinascer quella bella brezza che avevo sentito di primissima mattina”.

Così Caproni se ne va da Lecce. Se ne va, dice, senza averla vista. Senza aver visto quella che le guide chiamano la Firenze del Barocco, e si chiede per quale motivo le guide non chiamino Firenze la Lecce dello stile toscano.

L’articolo di Caproni era apparso in “Giustizia” del 27 settembre 1962, poi raccolto in Aeroporto delle rondini e altre cartoline di viaggio, edito da Manni nel 2000, con introduzione di Donato Valli e postfazione di Romano Luperini.

Girolamo Comi fu informato dell’uscita dell’articolo di Caproni in maniera probabilmente poco aderente al contenuto, per cui rivolse al poeta ligure un affabile rimprovero. Donato Valli riporta la risposta di Caproni: “ Caro Comi, no, non ho detto male di Lecce, pur non avendola vista. Ho trovato stupido che la diminuiscano sentendo il bisogno di paragonarla a Firenze. Non credo che ci sia questo bisogno, da quanto ho appreso sui libri. Perché allora, non paragonano Firenze a Lecce? Questo volevo dire nel mio foglietto di diario”.

Per Giorgio Caproni, dunque, Lecce è città unica, con una sua fisionomia autentica, con una sua raffinatezza che non vuole avere – o subire – paragoni.