«La città armoniosa». Lecce raccontata da Tommaso Fiore in ‘Un popolo di formiche’

In una delle sei ‘lettere pugliesi’ che costituiscono il volume, datata luglio 1926, Fiore racconta Lecce, una città colta, spirituale, raffinata, critica, elegante

L’armoniosa. Così Tommaso Fiore definisce Lecce in ‘Un popolo di formiche‘. L’unica città – dice- non solo di Puglia ma di tutto il Mezzogiorno, “in cui i palazzi e le pietre e le strade e i cortili e le loggette e le finestre e fin le abitazioni più umili abbiano serbato l’antico carattere storico, spiccatamente artistico”.

In una delle sei ‘lettere pugliesi‘ che costituiscono il volume, datata luglio 1926, Fiore racconta di una città colta, spirituale, raffinata, critica, elegante.

La meraviglia del luogo

Bisogna fermarsi per strada ogni momento, dice, a fare i conti con la bellezza che appare improvvisamente nelle “viuzze brevi, tortuose, bitorzolute”, in cui ci si può smarrire ad ogni istante. Ma probabilmente Tommaso Fiore si pone nei confronti del luogo proprio con il sentimento di chi vuole smarrirsi, per darsi la possibilità di essere colto dalla bellezza improvvisa. In quello smarrimento per la città, viene accompagnato da un suo vecchio amico pittore che lamenta le costruzioni moderne e le deturpazioni dell’antico. Ma Tommaso Fiore non se ne accorge nemmeno, sopraffatto dalla meraviglia dei palazzi, dallo splendore delle chiese.

La gente

Però, quello che più coinvolge nella descrizione della città, è il riferimento al carattere della gente, fine, sensibile, vivace.
Una città senza contadini. Una città innamorata della musica. Popolata da artisti della cartapesta e della creta. Come nelle epoche primitive, l’arte nasce ancora dal popolo, e innumerevoli sono i poeti dialettali, più o meno colti e più o meno poeti, “ma tutti a contatto della vita delle strade e delle piazze, di cui ritraggono i mille aspetti”. Per le strade intorno a piazza Sant’ Oronzo, si aggira una folla sorridente, “sicura di sé, complimentosa, di uomini di studio, di foro e di mondo”, professionisti dallo spirito ipercritico, dal motto arguto, dalla frase spigliata.

L’anfiteatro romano in piazza S. Oronzo Lecce

Ma dopo quella di muover la lingua, “la più seria occupazione del leccese è di far l’amore, a venti come a sessant’anni”.
Ai tavolini dei caffè si narra l’accaduto al ballo della serata al circolo, “castronerie e preziosità linguistiche di popolani e di provinciali, racconti di miseria e di appetito”. E’ il trionfo dei poeti dialettali, “i quali si contentano di ridere senza cattiveria e, invitati, recitano dei versi, gli ultimi composti, ovvero anche quelli ben noti, sempre quelli, che celebrano le gioie del palato e del ventre”. Intanto, tutt’intorno, sciamano artisti del luogo e della provincia, giovani e non più giovani, che si occupano di lavori, di commissioni, di vendite.

Uomini di cultura e conferenzieri si rivedono le bucce l’un l’altro. “Ma soltanto ai leccesi è lecito ridere dei leccesi”, puntualizza Tommaso Fiore.

Però è verso la conclusione della sua lettera che Tommaso Fiore individua quella che è la natura intima della gente di Lecce, la sua caratteristica sostanziale. Allora si domanda che cosa si deve pensare di questa gente, se è tollerante o accomodante, se è scettica o saggia, anarchica o autonomista, se “si esprime solo attraverso uno sterile ironismo e ha anche essa il suo dolore, le sue commozioni, che redimono”. E ancora si domanda se “contribuirà alla nuova vita, almeno con quelli che ora sono pei banchi di scuola, o si affloscerà sempre più in un nullismo verboso”.

E’ passato quasi un secolo da quando Tommaso Fiore scriveva queste cose di Lecce e della sua gente. In questo tempo è cambiato il mondo e quindi è cambiata anche Lecce. Ma, a volte, in certe atmosfere, si ha l’impressione che le strade siano attraversate dallo spirito misterioso di una bellezza che è riuscita e riesce ad ignorare il tempo.



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