Bettino Craxi, la morte ad Hammamet da ‘latitante’

Il 19 gennaio 2000, Bettino Craxi moriva ad Hammamet, in Tunisia. Lontano dalla sua Italia, doveva sarebbe tornato solo da uomo libero.

19 gennaio 2000. Sono passati esattamente ventitré anni dalla morte di Bettino Craxi, socialista doc, stroncato da un infarto. Se n’è andato in un pomeriggio di pioggia senza riuscire a realizzare il suo sogno di tornare in Italia da uomo libero, da «innocente» come aveva continuato a gridare dalla sua villa di Hammamet, una grande casa bianca dove si era rifugiato nel 1994, quando era scoppiata l’inchiesta Mani Pulite. Quando gli venne ritirato il passaporto per pericolo di fuga, era troppo tardi. Il leader del Partito Socialista Italiano era volato in Tunisia, protetto dall’amico Ben Alì.

Malato da tempo di una grave forma di diabete che gli aveva ormai indebolito il cuore e compromesso la funzionalità dei reni, aveva categoricamente rifiutato gli arresti domiciliari che gli erano stati “offerti” per il suo grave stato di salute. «Se non posso tornare a casa mia da uomo libero, preferisco rimanere qui, anche da morto» aveva dichiarato. Nonostante le polemiche in tanti erano d’accordo, perché non era più un caso politico, ma un caso umano, era un gesto di clemenza, di pietà, verso un paziente malato che aveva un cognome pesante. L’idea di creare un corridoio umanitario per salvargli la vita sfumò subito. E fu proprio Craxi a dire no ad un rientro «condizionato».

Quel volo per riportarlo a casa non è mai partito. Craxi se n’è andato in esilio, poco prima del suo sessantaduesimo compleanno, con il peso di una condanna per corruzione e ricettazione. Un esilio durato sei anni, fino alla fine dei suoi giorni, quando il politico del Garofano si è spento in terra “straniera” tra le braccia della figlia Stefania. E in Tunisia è rimasto anche dopo il funerale nella Cattedrale Saint Louis. Non era tornato in Italia da uomo libero e non lo avrebbe fatto nemmeno da morto. Ora riposa nel cimitero cristiano in un recinto di terra che si affaccia sul mare, rivolto verso l’Italia.

Due le immagini che contraddistinguono la storia di questo leader che ha segnato la vita italiana degli anni ‘80 e ’90. La prima, quella delle monetine che in piena tangentopoli lo bersagliano all’uscita dell’Hotel Raphael, il suo quartier generale a Roma. Ignorò chi gli consigliava di uscire dal retro e scelse di affrontare i contestatori. Il resto è cosa nota: un uomo potente che sfugge al linciaggio degli italiani che non gli perdonano di essere il simbolo di una politica del malcostume con cui si vuole definitivamente chiudere i conti. Quel 30 aprile 1993 segna un prima e un dopo.

La seconda quello dello statista coraggioso che, dinanzi ad un sistema di finanziamento della politica che ha riguardato tutti, ma proprio tutti i partiti, prende la parola in parlamento e davanti ai suoi colleghi colpevolmente silenti chiede una assunzione di responsabilità per evitare la sovrapposizione e la commistione dei poteri dello Stato che sarebbero risultati a suo dire bilanciati a favore dei giudici. Fu probabilmente il suo discorso più famoso, quello in cui ammise il finanziamento illecito del Partito Socialista, in cui affermò che tutti i partiti avevano fatto la stessa cosa e negò ogni accusa di arricchimento personale.

Come racconta Marcello Sorgi nel libro «Presunto colpevole», ricco di rivelazioni e racconti inediti, «Tornati a casa dal funerale, rimettendo in ordine la stanza in cui Craxi è morto, si trova sotto il letto un foglio di carta con il suo ultimo appunto, scritto poco prima della fine. Si può dire che sono le sue ultime parole. Eccole: “In questo processo, in questa trama di odio e di menzogne, devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri. Dopo quello che avete fatto alle mie idee, la mia vita non ha più valore. Sono certo che la storia condannerà i miei assassini. Solo una cosa mi ripugnerebbe: essere riabilitato da coloro che mi uccideranno“».