Solo in provincia di Lecce sono ben 258mila le donne inattive. Un dato allarmante che, senza dubbio, induce a riflettere su quanto si è fatto sino ad ora in riferimento alla tematica. E, ovviamente, sulle iniziative che verranno organizzate nel futuro. “Per rilanciare l’occupazione italiana, soprattutto quella femminile, occorre cambiare prospettiva e avviare una lotta congiunta alla disoccupazione e all’inattività, cioè a quella condizione di sconforto e sfiducia che porta le donne a non cercare lavoro”. È quanto afferma la consigliera di parità della Provincia di Lecce Filomena D’Antini, alla luce dei dati Istat rielaborati su base provinciale dall’Ufficio Statistica dell’Ente di Palazzo dei Celestini. Se nel Salento – in termini seppur minimi, si riduce il gap tra il livello di disoccupazione femminile e maschile – lo stesso non può certo dirsi del livello di occupazione. Nella nostra provincia, infatti, mentre il tasso di disoccupazione per i maschi, tra i 15 e i 74 anni, è pari al 20,9%, quello per le femmine tra i 15 e i 74 anni è pari al 24,0%. Dati che, comunque, non sono per nulla confortanti rispetto alla disoccupazione media complessiva in Italia, che annovera una percentuale pari all’11,9%.
Analizzando invece i numeri relativi al tasso di occupazione risultano occupate solo il 31,6% di donne tra i 15 e i 64 anni di età, a fronte di un’occupazione maschile pari al 55%. Infatti, i maschi occupati sono 141mila e le donne occupate sono 84mila. “Come mai?”, si chiede Filomena D’Antini. “Ancora una volta la risposta è da ricercarsi nella categoria degli inattivi, ossia di coloro che non lavorano, né cercano un’occupazione. Oggi, in provincia di Lecce, le inattive sono ben 258mila” è la risposta preoccupata della consigliera di Parità, che propone alcune possibili soluzioni, con uno sguardo al futuro. “La schiera delle inattive sembra infoltirsi, sia in termini congiunturali che tendenziali, e i principali motivi derivano dalla inadeguatezza degli strumenti di supporto al lavoro di cui le donne necessitano per poter assolvere al ruolo di moglie madre lavoratrice. Il conflitto fra professione, maternità e famiglia e l’inadeguatezza dei servizi impedisce in Italia a 650 mila madri di entrare o rientrare nel mercato del lavoro”.
Nel nostro Paese il fabbisogno effettivo di asili nido pubblici aggiuntivi è di 108mila posti (il 40 per cento è offerto dai privati), mentre le madri che avrebbero bisogno per poter rientrare nel mercato del lavoro di servizi per i bambini più grandi, da 3 a 14 anni, fra l’altro meno costosi, sono molto più numerose: 334mila. “A ciò si aggiunga che per molte madri non vi è convenienza a lavorare”, prosegue D’Antini. Del resto, i motivi per i quali le madri considerano inadeguati i servizi di cura per l’infanzia sono prevalentemente due: il 55% li ritiene troppo costosi, solo il 16% lamenta la loro assenza nella zona dove abita e se il costo dei servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura dei bambini è superiore al salario atteso, non è conveniente lavorare.
“Si può modificare questa propensione negativa delle madri a lavorare – sostiene la consigliera – sia alzando il salario atteso, per esempio riducendo le tasse sui redditi da lavoro delle madri occupate o promuovendo l’innalzamento del livello d’istruzione, oppure diminuendo il costo dei servizi alla persona per le famiglie con significative agevolazioni fiscali, anche attraverso misure di welfare aziendale”.
“Occorre lanciare un appello a tutte la parti politiche per una valutazione attenta dei problemi e delle prospettive di lavoro, di carriera e perché no di maternità – paternità. Perché se fino ad oggi sono state le donne a rinunciare a qualche cosa, vorremmo un Paese in cui finalmente non siano costrette a rinunciare a nulla”, conclude Filomena D’Antini.