Non si è ancora spenta l’eco del suggerimento del Presidente del Consiglio (e dell’ex Presidente della Repubblica, ora senatore a vita) di non votare al referendum «antitrivelle», suggerimento fondato sull’argomento che la Costituzione porrebbe sullo stesso piano il voto e il non-voto al referendum abrogativo. In verità, la Costituzione dice che il voto è «dovere civico» (articolo 48) e che «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore», per «onore» dovendosi intendere tra l’altro, con ogni probabilità, il dovere di non invitare a disertare un «dovere civico». Ma, come si sa, l’«onore», almeno quello costituzionale, è da tempo fuori moda.
Sarebbe comunque acqua passata se il Presidente del Consiglio e i suoi non avessero, con un certo anticipo, iniziato a martellarci con inviti ad andare a votare al referendum costituzionale. Che poi, sarebbe il caso di tenerlo presente, è previsto dall’articolo 138 della Costituzione come strumento nelle mani delle minoranze contrarie a revisioni costituzionali ritenute frettolose, improvvisate, pasticciate, in questo caso anche sgrammaticate. Ecco perché è costituzionalmente legittimo, ma insensato che a chiedere il referendum costituzionale siano i parlamentari che hanno votato e le forze politiche che hanno sostenuto la riforma. È come se si opponessero alla propria riforma. Politicamente, è chiaro, lo fanno per sembrare amici della democrazia diretta, dopo che hanno fatto di tutto per buttare a mare il referendum sulle trivelle e i tanti, troppi milioni di euro spesi per tenerlo separato dalle vicinissime elezioni amministrative.
Ma torniamo all’invito a votare al referendum costituzionale: il Presidente del Consiglio ha cambiato idea sulla democrazia diretta? Si è ricordato che la sovranità appartiene al popolo? Che la partecipazione è un principio supremo della Costituzione (art. 3)? O è lecito sospettare che i suoi sondaggisti e consiglieri lo stiano spingendo a suggerire il voto nella speranza che l’allargamento della platea dei votanti favorisca il «sì»?
Pur di tentare, questa volta, di incentivare il voto, così spudoratamente disincentivato la volta precedente, si è tentato, per iniziativa formale — ma non sostanziale — del Ministro degli Interni, di modificare la legge sui referendum (352 del 1970, articolo 15) perché le urne restassero aperte due giorni. Ma molti osservatori di questi bizzarri accadimenti, per esempio l’ex Presidente del Consiglio, «rottamato» dall’attuale, hanno fatto notare che non sarebbe stato il caso di buttare un’altra volta soldi a mare (meglio, se proprio, la Fontana di Trevi). Cosicché il buon senso, per una volta, ha prevalso. Il buon senso, si intende, di chi si è opposto a quest’improvviso innamoramento governativo per la democrazia referendaria.
Ma quello appena ricordato non è l’unico cambio di rotta posto in essere dal Presidente del Consiglio in questi giorni. Ricordiamo tutti che per mesi ha tentato di concentrare su se stesso il dibattito sul referendum costituzionale con uscite del tipo: «Se perdo il referendum sulla riforma costituzionale smetto di far politica» (ilsole24ore.com del 12 gennaio). «Di far politica», si badi, non solo di governare: il solito esagerato! In quel momento, evidentemente, era convinto che spostare l’attenzione da una riforma confusa e a tratti illeggibile alla questione della sua sopravvivenza politica sarebbe stato più proficuo dal punto di vista del consenso.
Ma i sondaggi hanno iniziato a prendere una piega non rassicurante e così il Presidente del Consiglio ha iniziato a sostenere che il dibattito sul referendum costituzionale non va personalizzato. Peggio: che a personalizzarlo sarebbe il fronte del «no»! E ha iniziato a sostenerlo come se, fino a quel momento, non avesse ossessivamente detto l’esatto contrario! Qui, tra parentesi, sarebbe lecito, forse doveroso, domandarsi se per puro caso non ci consideri deficienti. Qualche osservazione conclusiva, per ora prevalentemente di metodo e di contesto, tra le tante che sarebbero da fare.
Internet non dimentica. Internet è un pozzo senza fondo dal quale un motore di ricerca consente, in un solo secondo, di recuperare tutto, comprese stupidaggini vendute per ragionamenti e contraddizioni vendute per coerenza.
Le riforme costituzionali sono un argomento troppo serio perché se ne possa parlare sempre e solo con linguaggio da scommesse sui cavalli («Se perdo», «Se vinco»…).
Il dibattito politico e quello costituzionale dovrebbero essere tenuti nettamente separati. Un conto sono le regole del convivere, che dovrebbero essere scritte da tutti coloro che convivono e dovrebbero essere scritte per durare, non per essere riviste o stravolte da ogni Governo che abbia voglia di consolidare il proprio potere; un altro conto sono le decisioni che definiscono e attuano questo o quell’indirizzo di governo. Per gli amanti delle metafore calcistiche: un conto sono le regole del gioco; un altro le singole partite. Ciò che questo Governo sta tentando di fare, invece, è riscrivere le regole da solo per essere sicuro di (stra)vincere le prossime partite.
Dato che la legge elettorale con cui è stato eletto questo Parlamento è stata dichiarata incostituzionale quasi due anni e mezzo fa (sentenza 1 del 13 gennaio 2014), quello ancora in carica è il Parlamento meno legittimato della storia repubblicana a fare riforme costituzionali di qualunque portata. Se l’«onore» costituzionale di cui si è detto sopra non fosse ormai solo una parola, questo Parlamento si sarebbe dimesso subito dopo quella sentenza, invece di fare una legge elettorale probabilmente peggiore di quella annullata dalla Corte costituzionale e di procedere alla riforma costituzionale, come si dice, manu militari.
La Costituzione italiana è piuttosto giovane. Quella statunitense è in vigore dal 1789. La produzione legislativa del nostro bicameralismo paritario è ipertrofica. Il problema non è quello di velocizzare la produzione, bensì quello di migliorarla. E si può quanto meno dubitare che questo miglioramento verrà da un Senato composto da consiglieri regionali e sindaci che dovranno dividersi tra i due incarichi e che non potranno che fare male sia i consiglieri o i sindaci che i senatori.
Quanto al merito, naturalmente, restiamo in trepida attesa delle scoppiettanti slide con cui il Presidente del Consiglio vorrà illustrarci in dettaglio i pregi della riforma destinata, nelle sue intenzioni, a «rottamare» la Costituzione nata dalla Resistenza e dalla mente di Costituenti — Moro e Calamandrei —in confronto ai quali i revisori del 2016 — Verdini — fanno venire solo tanta nostalgia.
di Enrico Mauro
