È inevitabile, quando si parla di Pasqua, non pensare immediatamente a uova di cioccolato e colombe in pan brioche ma queste prelibatezze vantano una storia piuttosto recente, rifacendosi, la prima, ad altri dolciumi comunque reperibili durante il resto dell’anno, ed essendo, la seconda, una semplice rivisitazione del più natalizio panettone milanese. La tradizione del Salento ce ne ha consegnate, o sarebbe forse più giusto dire donate, delle altre assai più antiche di cui, oggi, si è probabilmente smarrito il significato ma che, un tempo, incarnavano tutto il senso della di questa ricorrenza.
È il caso della classica pecorella in pasta di mandorle, un’autentica prelibatezza reperibile solo in questo particolare periodo, che non è solo una raffigurazione di Cristo in quanto “Agnello di Dio”, ma un vero e proprio simbolo di rinascita raccontata non solo dal vessillo che, sovente, si ritrova nelle confezioni con cui viene venduta e su cui, fateci caso, è sempre rappresentato un sole splendente che parla di vita o, meglio, di risurrezione, ma anche dalle mandorle con cui viene realizzato l’impasto, quelle secche, conserva dell’anno precedente, i cui alberi, ora, sono i primi a rifiorire annunciando la primavera.
In effetti, non tutti sanno che, se la Pasqua, al contrario del Natale, non si sa mai quando capiti, è proprio per via della primavera, anzi, più precisamente della prima luna piena di primavera, la cui domenica successiva sarà, appunto, per tradizione, quella di Pasqua. Ed è quindi fortissimo il legame tra gli antichi riti che celebravano il risveglio della natura dopo i mesi invernali e il messaggio di speranza che questa festività, centro del calendario cristiano, andò via via a sostituire.
Di rinascita, poi, parla sicuramente il famosissimo “pupu cu’ l’ovu”, un pupazzo, come dice la parola stessa, un biscotto, ricoperto di coriandoli, dalle più svariate forme (cesta, colomba, ecc…) al centro del quale vi è posto un uovo rassodatosi durante la cottura in forno, sinonimo anch’esso di vita che sboccia e che, una volta, alla stregua della calza della Befana, era quanto di più atteso e desiderato dai bambini che, la mattina di Pasqua, lo spezzettavano per inzupparlo nel latte caldo.
Ma c’è ancora un’altra squisitezza pasquale di cui parlare, un dolce che, al contrario dei due appena citati, poco ha a che fare con la risurrezione di Cristo ma ne ricorda, invece, la passione: sono i cacchitieddi, grandi taralli dalla difficile lievitazione ricoperti da una candida glassa, detta “scileppo” o “scilippu” realizzata con zucchero e albume a cui, talvolta, si aggiunge quel che basta di anice o di limone per evitare il classico olezzo dell’uovo detto, dalle nostre parti, “lientu”. Questo particolare dolce, si diceva, racconta un particolare episodio della vita di Gesù che precedette di poco la sua morte, sono infatti una rielaborazione della corona di spine che gli fu posta sul capo prima di essere crocifisso e che, ai tempi dei nostri nonni, venivano già realizzati la mattina della Domenica delle Palme per appenderli ai rami di ulivo da benedire ed essere, in seguito, consumati a pranzo che, con tutta quella dolcezza, era senza ombra di dubbio motivo di festa!
Usanze lontane di un tempo che fu, certo, ma che non di meno, oggi, ci restituiscono quel senso di appartenenza a cui ancora qualcuno tiene e che, sarebbe doveroso, per noi e chi verrà, non disperdere mai.