La leggenda della fanciulla di Torre Pali, ecco la storia di Marta

L’isola della fanciulla racconta una leggenda che ha come protagonista un terribile corsaro saraceno, Dragut ed una ragazza, Marta. Ecco come l’ha immaginata la scrittrice Antonia Occhilupo

Tra i tanti luoghi da vedere nel Salento, ce n’è uno “particolare” perché lega l’indiscussa bellezza ad una storia affascinante e struggente. È l’isola della fanciulla di Torre Pali, un tratto della marina di Salve che racconta la storia di amore e di fede di una giovane del posto, Marta, nome dato dalla scrittrice Antonia Occhilupo che ha voluto creare intorno a lei una bella famiglia timorata di Dio: il padre Simone, la madre Agnese e i tre fratelli, Timoteo di vent’anni, Andrea di diciassette e Paolo di dodici. Marta ha quindici anni ed è promessa sposa a Cosma Damiano, un contadino di ventidue anni che abita al borgo di Salve. Ma Dio ha in serbo per lei un altro destino….

Ecco la leggenda della Fanciulla di Torre Pali nata dalla penna di Antonia Occhilupo

La leggenda, dal titolo La fanciulla di Torre Pali, è contenuta nel libro L’amore rapito e altri bozzetti ed. PAV, la cui copertina è stata curata dall’artista Luigi Sergi.

La famiglia di Marta abita in aperta campagna, nei pressi di una grotta, oggi Grotta delle Fate. È una caverna proibita per non imbattersi in qualche animale feroce, ma il luogo è fresco e Marta ne trae ispirazione per i suoi sogni di moglie e di madre. È questa la sorte delle donne. Sposarsi il prima possibile, essere devote e ubbidienti al marito e fare molti figli, soprattutto maschi, braccia da lavoro per la terra. Marta cresce alta e slanciata; per uscire fuori dalla misera abitazione deve mettersi il fazzoletto in testa. A lei dispiace incarcerare i folti capelli neri nel fazzoletto legato dietro la nuca. Il fazzoletto non è un vezzo, ma un segno imposto di dipendenza dall’uomo e di pudore.

Dalla loro pajara, si scorge il mare in lontananza. Il padre di Marta fa il colono a servizio di un ricco proprietario e fatica assai con gli ulivi, spietrando continuamente la terra arsa, aiutato da tutta la famiglia, quasi mai da Andrea che fa il pescatore. La loro vita scorre tranquilla, tra povertà e fede, fino a quel fatidico venerdì 22 luglio 1547, quando arriva il sanguinario comandante ottomano Turgut Reis, più conosciuto come Dragut. Anche dopo l’eccidio dei cristiani a Otranto, nel 1480, i turchi avevano continuato a infestare le coste.

Racconta Antonia Occhilupo, dando voce all’eroica Marta: “Appena raggiungo la cisterna, vedo arrivare degli uomini armati. Presi di spalle, papà, mamma e i miei fratelli vengono picchiati a sangue. Terrorizzata, mi nascondo nel pollaio. Vedo i piedi con i calzari dei pirati che si allontanano. Sembra che l’abbia fatta franca, quando uno di loro mi afferra per i capelli, ridendo sguaiatamente con la sua bocca sdentata. Mi lega le mani e mi rimette il fazzoletto in testa, annodandomelo stretto stretto intorno al collo, quasi a soffocarmi. Con una corda girata attorno ai fianchi, mi trascina nel branco. Camminiamo per ore, sotto il sole cocente. I lacci mi stringono i polsi, i piedi sanguinano, il collo è gonfio e pulsante, il cuore batte all’impazzata e sembra che mi esca dal petto. La campagna intorno è disseminata qua e là di pajare e di muretti a secco lungo la serra. I fiori selvatici leniscono un po’ la mia angoscia, ripensando ad Andrea che, con galanteria, offriva quei fiori a me e alla mamma.

Fulminea la mia mente corre ai miei genitori e ai miei due fratelli. Chissà se sono vivi. Ad un tratto, l’aria sa di mare e di mentuccia, di scoglio e di rosmarino. Attraversiamo uno stretto sentiero sovrastato dalla macchia mediterranea che termina su una larga distesa di sabbia circondata da alte dune infiorate; dinnanzi a me, il mare e tanti scogli. Tento di scappare verso gli acquitrini, pur sapendo di sfracellarmi. Mi riacciuffano in un battibaleno. I vascelli assistono, impotenti, allo scempio sul mio corpo ancora acerbo, esposto poi al pubblico ludibrio degli occhi goduriosi dei pirati. Le tamerici stillano lacrime resinose di scirocco, i bianchi gigli marittimi serrano le corolle e si imporporano del mio liquido purpureo. Arriva il comandante, sanguinario più dei suoi stessi scagnozzi, tutto bardato nei suoi abiti eleganti, e sguaina la spada, che luccica alla prima luna.

Più e più volte, mi ingiunge di rinnegare il mio Dio per seguire il suo, un certo Allah. Più e più volte, io rifiuto la sua imposizione, mentre le mie labbra mormorano l’Ave Maria e il Pater Noster. Più e più volte, lacera le mie povere vesti con la spada affilata, trafiggendo e denudando il mio corpo, per farmi abiurare la religione cristiana. Alla fine, non ottenendo la mia conversione, ordina ai suoi uomini di gettarmi in mare, in pasto ai pesci.

In balia dei vorticosi cavalloni, avverto un dolore atroce in tutto il corpo, con il sale che penetra nelle mie carni ferite. All’improvviso, una tromba d’aria solleva il mio corpo martoriato, trovando riparo sullo scoglio dove prima era attraccata la nave del capo Dragut. Un assordante fragore di onde altissime ricopre il mio corpo morente di sassi, di conchiglie, di madreperle sminuzzate e di posidonie, di sabbia e fango nero. Ricci, granchi, polpi e pesci si immolano per me. La mia breve vita si cristallizza nel martirio che suscita la pietà di Dio. Prego, prego ancora, flebilmente, io, fanciulla martire. Immobile, distesa sullo scoglio, i miei occhi sbarrati colgono l’ultima stella.

Giorni dopo, alcuni pescatori trovano il mio corpo sull’isola. Avevo il sorriso sulle labbra e gli occhi rivolti al cielo.”

Da allora Marta vive sull’Isola della fanciulla, uno scoglio prospicente la torre di fortificazione fatta in seguito costruire da Carlo V, re di Spagna, a difesa della gente del posto contro gli attacchi dei saraceni.

C’è chi ha visto Marta cavalcare un’onda impazzita alitata dal libeccio, vestita di conchiglie bellissime, chi l’ha vista vagare nel buio, quando il cielo trema e cadono le stelle in una scia di lacrime luminescenti, a indicarle la via del ritorno alla sua isola, dal suo Cosma Damiano, insieme per l’eternità. Non si allontana mai dalla sua spiaggia, oggi animata da tanti turisti stupefatti dalla singolarità della torre, le cui fondamenta sono state sommerse dal mare. Nei secoli, la torre circolare a due piani ha perso pezzi, comprese le feritoie, e le sue pietre hanno fatto un bel tonfo in mare, facendo sussultare Marta per lo spavento. Il suo scoglio, invece, è sempre là, intatto, a custodire la sua storia.

“La mia è un’isola carismatica di martirio e di fede e ispira un senso di sacralità al punto che molti turisti vi approdano ed elargisco a tutti molluschi, patelle, grossi granchi e tanti ricci, ma soprattutto calma interiore, anche se la mia isoletta si diverte a comparire e scomparire, a seconda della bassa o alta marea” conclude la scrittrice.