
Una voce si rincorre, da quatto secoli, per le vie di Brindisi: “i leccesi sono venuti di notte e si sono portati via la colonna”. A Lecce, la versione ufficiale è da sempre quella che sono stati i brindisini a fargliene dono in segno di devozione a Sant’Oronzo.
Due città, Brindisi e Lecce, geograficamente vicine, ma idealmente lontane, assai più simili di quanto un certo campanilismo voglia spesso far credere ma, di fatto, due autentiche separate in casa.
Da una parte, Lecce, l’aristocratica e dotta capitale del barocco e Brindisi, dall’altra, fra le due sicuramente la più impulsiva e scapestrata, facce opposte e imprescindibili della stessa medaglia, il Salento, sui cui lati, fin dal ‘600, è impresso in rilievo lo stesso conio, simbolo di orgoglio, ma anche di discordia, capace di evocare la gloria del passato e, al contempo, esaltare le coscienze e la fede: una colonna, appunto. Anzi, no… due!
Come è noto ai più, infatti, il monumento che sovrasta la centralissima Piazza Sant’Oronzo – sede di manifestazioni e importanti eventi – con, in cima, (prima del restauro), la statua in bronzo del patrono di Lecce , un tempo, troneggiava con la sua gemella sulla scalinata antistante il porto di Brindisi, ma il motivo per cui sia, poi, stata spostata è tutt’ora oggetto di forti contrasti.
Tra reciproche accuse di furto e discolpa, com’è che andarono esattamente le cose?
Per rispondere a questa domanda, si deve fare un salto indietro di quattrocento anni, ai tempi in cui la peste tornò a farsi viva in Europa e l’allora Regno di Napoli fu una delle regioni più colpite. Era il 1657 e, per quanto virulento, il morbo sembrò aver risparmiato quella che, una volta, era detta Terra d’Otranto lasciando così spazio al diffondersi, tra i leccesi, dell’idea che lo scampato pericolo fosse opera di Sant’Oronzo sebbene, all’epoca, non era a lui che era affidata la protezione del capoluogo lupiense i cui abitanti, invece, erano devoti a un’altra santa locale, Irene, alla quale era già stata dedicata una meravigliosa chiesa ancora esistente in Corso Vittorio Emanuele II.
Chissà, magari fu solo la trovata di una congregazione vicina al primo vescovo leccese di sfruttare le circostanze per ristabilirne il culto soppresso quasi vent’anni prima ma, in ogni caso, resta poco chiara la ragione per cui fu proprio Sant’Oronzo ad essere indicato come colui che aveva tenuto lontano il pericolo.
Fatto sta che non ci volle molto a che la voce del “miracolo” valicasse i confini cittadini toccando, dapprima, i comuni limitrofi e, più tardi, anche altri più lontani che, da quel momento, assunsero il protomartire di Lecce come loro patrono.
Giunta a Brindisi, in segno di riconoscenza, il sindaco del tempo, Carlo Stea, decise di contribuire, con altri centri, alla realizzazione di un monumento votivo donando i rocchetti di una delle due colonne terminali della Via Appia crollata centotrenta anni prima a causa di un terremoto e che, con quella rimasta in piedi, aveva svettato sul porto messapico per oltre tredici secoli. Ma, per quanto disposta a fare la sua parte, il separarsi da un vestigio a lei tanto caro e che desiderava fosse rimesso in sesto, non piacque affatto alla popolazione brindisina al punto che, ogni qual volta i legati leccesi venivano a chiedere quanto promessogli, non mancava occasione per azzuffarsi.
Le cose andarono avanti così per un paio di anni fino a quando la questione non fu rimessa nelle mani del viceré di Napoli il quale decretò che la colonna fosse traslata a Lecce dove, dopo una serie di rimaneggiamenti, fu installata laddove tutti oggi possono ammirarla.
Ma perché, dunque, dire che fu trafugata di notte? Ebbene, c’è un fondo di verità in questa affermazione: pare che, nonostante gli ordini ricevuti, i brindisini continuavano comunque a non volerne sapere di cedere finché, le autorità locali, pur di garantire alle maestranze leccesi di raccogliere i marmi e portarseli via incolumi, non decisero di autorizzarne il trasporto se non, appunto, col favore delle tenebre… quando tutti dormivano!
Non di furto si trattò, quindi, ma piuttosto di un’eccessiva leggerezza da parte di un solo amministratore che, come spesso anche oggi accade, bypassando il comune sentire della sua comunità, la privò di un importante pezzo della sua storia a cui tuttavia, da quasi mezzo millennio, si è saputo dare altrove pari valore, lustro, rispetto e dignità.