“Ragioniere che fa, batti?”, “Ma…mi dà del ‘tu’?”, “No, no: dicevo, batti lei?”, “Ah, è congiuntivo!”. Chissà se adesso i due protagonisti di quella famosa partita a tennis potranno disputarne un’altra, magari senza impedimenti di sorta, lontano dalla nebbia che ostacolava un gioco fluente. Lo scenario, probabilmente, vedrà un cielo azzurro e nuvole bianche. Sì, in paradiso. Il ragioniere Fantozzi, assieme al fidato collega Filini, riuniti dal destino dopo quanto avvenuto stamattina. L’interprete dell’intramontabile aziendalista Ugo, l’attore Paolo Villaggio, si è spento stamattina all’età di 84 anni. Era ricoverato dai primi di giugno presso la clinica privata “Paideia” di Roma dopo essere stato seguito anche dal policlinico Gemelli. Genovese purosangue, scrittore e autore, come molti sapranno diede il volto a mille personaggi entrati nell'immaginario collettivo, primo fra tutti, appunto, il “ragionier Ugo Fantozzi”.
Non tutti ricorderanno, forse, che girò pure un film ambientato nella provincia di Lecce, a Porto Badisco ed altre località. Si tratta di “Azzurro” (del regista Denis Rabaglia, anno 2000). È la storia di un nonno, Giuseppe – interpretato proprio da Villaggio – che dopo anni di lavoro in Svizzera torna nel Salento, dove trova la sua nipotina Carla, affetta da una grave malattia oculare. Giuseppe si prodigherà, giorno dopo giorno, per poter curare la nipote. Tornerà in Svizzera per chiedere l'aiuto del suo ex datore di lavoro e, nel frattempo, sarà costretto ad affrontare alcune questioni irrisolte del passato. Sono opere di tale valore, dunque, che mettono in risalto le doti artistiche di Villaggio. Ricordarlo solo per le sue disavventure “fantozziane” sarebbe molto riduttivo, sebbene siano state soprattutto queste a farlo amare al grande pubblico. Basta ricordare, infatti, un altro capolavoro cinematografico dal titolo “Io speriamo che me la cavo”. Film nel quale lui, professore di scuola elementare, si trova ad affrontare assieme ai suoi piccoli alunni difficoltà, bellezze e contraddizioni di una Napoli popolare. Tra sketch esilaranti e scene di vera commozione, riesce con la propria umanità a coinvolgere lo spettatore come pochi.
Ogni parola per descrivere la grandezza del professionista ligure, al momento, sarebbe davvero superflua. Abile a rendere comico il personaggio del romanzo – da egli stesso ideato – che in primis pone al centro la vita sfortunata e alienante di un modesto lavoratore, impiegato nella “Megaditta” gestita da conti e potenti direttori. L’immagine di una routine che rende gli uomini prigionieri di loro stessi, relegati in cliché dettati da problematiche e pensieri rintracciabili nella vita d’ufficio, ma anche all’interno della propria famiglia e nel rapporto con gli amici. Eppure, Paolo Villaggio riuscì in qualcosa di straordinario, rendendo tragicomiche alcune scene piuttosto drammatiche. Alcuni esempi: dal corteggiamento rivolto alla signorina Silvani (interpretata da Anna Mazzamauro) condito da rifiuti e cene finite male, alla risposta emotivamente devastante della moglie Pina (Milena Vukotic) “Ugo, io ti stimo tantissimo”. La domanda del povero ragioniere, pensate, era “Ma tu mi ami?”. Nemmeno la gioia di sentirsi amato, di trovare un angolo d’amore nel quale rifugiarsi.
Immagine di un paese nel quale le carriere venivano costruite dentro la culla del posto fisso, all’epoca tutt’altro che inusuale. Anzi, a tratti, forse, visto come qualcosa di troppo “grigio”. Una posizione che i giovani odierni rivaluterebbero volentieri. L’italiano medio appassionato di calcio che, pur di non perdersi la partita della Nazionale, le tenta davvero tutte. Si becca persino un pugno in pieno volto, ma alla fine dovrà rinunciare alla sua “frittatona di cipolle per la quale andava pazzo” e recarsi ad un cineforum aziendale, costretto dai suoi superiori a vedere “La Corazzata Potëmkin”. Cosa pensasse realmente di quella pellicola, inutile dirlo, lo sappiamo un po’ tutti.
Il ringraziamento a Paolo Villaggio, allora, va rivolto sicuramente per essere riuscito a farci ridere, ma soprattutto riflettere. Perché la crudeltà umana a volte non ha limiti, pertanto – oggi come allora – c’è bisogno di più umanità. Com’è umano, lei. È proprio il caso di dirlo.
Buon viaggio, maestro.
