‘Chi corregge deve essere fuor di vizio’, senza vocazione la scuola pubblica è solo ‘il posto fisso’

Nella quarta puntata di School River – il viaggio del professor Alessandro Macchia tra i vizi e le virtù del sistema dell’istruzione pubblica italiana – si affronta il tema della correzione. Chi corregge chi?

Se la scuola pubblica diventa un ammortizzatore sociale, un porto sicuro per chi cerca un lavoro qualsiasi (il famoso posto fisso e i due mesi di vacanza da criticare se non li hai e da negare quando li hai ottenuti…) allora può capitare assai di frequente che il titolo di docente venga conferito a persone che non sono idonee a rivestire questo delicatissimo ruolo, forse il più decisivo sulla strada che porta verso il futuro.
Dopo aver messo al centro di un’analisi sagace la figura del dirigente scolastico e poi quella del docente (‘inquadrato’ sia dal punto di vista delle relazioni con i colleghi che nei rapporti con gli alunni), nella quarta puntata di School River – il viaggio del professor Alessandro Macchia* tra i vizi e le virtù del sistema dell’istruzione pubblica italiana – si affronta il tema della correzione. ‘Chi corregge chi?’ si chiede Macchia. E poi: dareste voi le chiavi della vostra automobile a una persona che, pur mostrando pratica di guida, non sa riconoscere i segnali stradali? Il rischio di non affrontare mai.queste questioni un’altra ricaduta negativa ce l’ha: quella della chiusura a riccio, corporativa, autoreferenziale della categoria. E’ per questo che noi ne vogliamo parlare, perchè chi ama la scuola non ha paura delle parole, non ha paura di chiamare le cose con il loro nome. Chi ama la scuola ama la parola. Buona lettura, allora.

‘Chi corregge chi?’

A.S. sta per Anno Scolastico, A.S. sta per Ammortizzatore Sociale, come sanno bene i cultori di cruciverba ed enigmistica varia. La coincidenza dell’acronimo nullifica la sua casualità se solo alfine vogliamo riconoscere che la scuola italiana è per davvero diventata nel corso dei decenni un ammortizzatore sociale. A fronte della disperata ricerca di un lavoro, la scuola si presenta come un eldorado. Con questo non si vuol contestare la consueta infilata (sempre lecita!) di doglianze sugli stipendi bassissimi, bensì illustrare la realtà di una considerazione della scuola come un porto sicuro sul piano economico.

Stipendio certo a parte, non è neppure da sottovalutare l’allettamento di quei famosi due mesi più o meno rotondi di vacanza estiva, che poi vengono ipocritamente negati una volta che si è assunti come insegnanti. Conseguenza di tutto ciò è che assai di frequente il titolo di docente è conferito a persone che non sono idonee a rivestire questo delicatissimo ruolo.

Conseguenza della conseguenza è che nel tempo è stata gravemente compromessa l’immagine dell’intera categoria. Va da sé che, a esser onesti, negli scontri scuola-famiglia non si possano far ricadere sempre tutte le colpe sui genitori che alzano le barricate in difesa dei figli. Anche in questo caso si innesta un meccanismo di ingiustificabile autotutela collettiva da parte del personale docente. E dunque le nostre riflessioni oggi non possono che partire da una domanda semplice semplice: dareste voi le chiavi della vostra automobile a una persona che, pur mostrando pratica di guida, non sa riconoscere i segnali stradali? E se vi dicessero con estrema sicurezza che la tale o il tale insegnante di Italiano è incapace di calibrare la giusta posizione di congiuntivo e condizionale in un periodo ipotetico, sareste disposti ad affidare loro l’educazione dei vostri figli?

Siamo già fuori paradosso, perché la quotidianità scolastica insegna che situazioni di questa precisa natura sono molto più frequenti di quanto si possa pensare. «Se avrebbe studiato di più, non mi lamentavo di lui» è considerazione sentita diversi anni fa nel corso di uno scrutinio di fine anno scolastico sul filo delle culte labbra di una docente di Lettere ingiustamente rispettatissima. Ma le situazioni linguistiche di questo tipo sono diversificate. Non è neppure infrequente sentire docenti di Italiano che dopo verbi di volontà o dubbio facciano uso dell’indicativo anziché del congiuntivo. Entrato in un’aula per una comunicazione, sentii pronunciare alla docente la seguente raccomandazione: «Voglio che state tranquilli e fate la verifica in silenzio». Ad alcuni parranno inezie: scivolamenti di poco conto, peccatucci veniali. Ma il semplice pensiero di ciò è esattamente il risultato di una piega fortemente radicata nel tessuto culturale del personale docente.

Accanto a queste disastrose forme di oralità (per tacer della scrittura), è altresì necessario richiamare l’attenzione sul docente di Italiano che esercita la sua autorità linguistica sulla base dei luoghi comuni. Nella correzione degli scritti il suo forte è la contestazione della congiunzione “ma” a inizio di frase. Ma chi ha detto che è vietato? Ma dove è scritto? Nella correzione dell’espressione orale della lingua si sente poi un leone quando invece l’alunno impiega formule come “ma però” oppure “a me mi”. La contestazione è usualmente univoca irata asfaltante (le virgole le abbiamo volutamente saltate!) e ricondotta al recinto dell’errore sintattico tout court, laddove sarebbe opportuno sapere (e spiegare all’alunno) che trattasi di elementari ridondanze: sicuramente non da lasciare all’abuso, ma neppur censurabili con toni univoci irati asfaltanti e risibilmente cattedratici.

E dobbiamo di nuovo correre in difesa dell’alunno e in offesa dell’insegnante quando il primo è sottoposto dal secondo al compito di scrittura sotto dettatura. In questa attività una percentuale molto elevata di errori scaturisce da una cattiva pronuncia delle parole. Per circoscrivere il nostro discorso all’area linguistica salentina, la frase: «Fabio e Roberto escono insieme» sarà scandita dal docente leccese come segue: «Fabbio e Robberto escono inzieme». Nel peggiore dei casi l’alunno, scrivendo come sente, avrà commesso tre errori ortografici. Una dizione più controllata e precisa abbatterebbe il numero degli errori di trascrizione. Ora, non ci sentiamo di recriminare con la stessa precedente intolleranza nei confronti del docente: le parlate regionali non sono di facile controllo e nessuno ha fatto un corso di dizione. Ma un esame di linguistica, all’università, i docenti di Lettere lo avranno pur fatto (post scriptum: “un esame” / “lo” è una ridondanza non dissimile da “a me mi”). E una coscienza minima di criteri onesti e obiettivi di valutazione andrebbe fatta nella calibratura delle reciproche responsabilità fra dettatore laureato e trascrittore in fasce.

Pure, qualche parola in difesa del docente di Lettere la dobbiamo spendere. Secondo delle vecchissime e mai confutate indicazioni ministeriali, il compito della correzione della lingua italiana scritta e orale spetta a tutti i docenti, a prescindere dalla disciplina insegnata. Per fare un esempio, se il professore di Scienze rileva nell’elaborato sull’evoluzione della specie degli errori ortografici o morfologici o sintattici, sarà suo obbligo evidenziarli e correggere l’alunno spiegandone le ragioni. Il lavoro del docente non sarà quindi ristretto all’ordinaria analisi dei contenuti. È così perché la lingua è strumentale a qualsiasi disciplina: considerazione, ce ne scusiamo, fin troppo lapalissiana. Con questo, i docenti di Scienze, Musica, Inglese e quant’altro dovrebbero evitare di addossare al collega di Italiano la responsabilità univoca di eventuali strafalcioni linguistici degli scolari. Ma questo modo di puntare il dito rientra spesso nel novero dei gesti di misero e miserevole appagamento di alcuni. E della levatura morale di questi alcuni abbiamo già scritto. Di più per oggi non vogliamo dire.

*Le considerazioni sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.



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