“Tu non c’entri nulla, allontanati”. Pappadà non voleva uccidere la fidanzata di Andrea. Il racconto dell’orrore

Accompagnato in Caserma, Roberto Pappadà ha confessato. Ha raccontato di aver sparato perché le sue lamentele erano rimaste sempre inascoltate.

Gli abitanti di Cursi, increduli per l’accaduto, fanno fatica a capire come un ex operaio si sia trasformato in un brutale assassino. Roberto Pappadà, che questa notte ha ammazzato tre persone per quelli che in gergo giuridico vengono definiti “futili motivi”, è descritto da tutti come una «brava persona». Nessun precedente alle spalle, nessun guaio con la giustizia fino a questa notta, quando è stato arrestato per omicidio premeditato aggravato. Un’accusa pesante.

Certo, in un paese di poco più di quattromila anime quei litigi tra vicini, nati soprattutto per il parcheggio, erano noti. Il 57enne si lamentava spesso di non riuscite mai a trovare un posto libero accanto alla sua abitazione, la casa materna, dove viveva con la sorella disabile. Screzi, a volte accesi altri silenti, ma mai uno scontro. Mai un gesto eclatante.

Nessuno avrebbe mai immaginato che le parole sarebbero sfociate nel sangue. Di sangue, invece, ne è stato versato tanto in via Tevere, non lontano dal centro del paese.

La ricostruzione della follia

Le lancette dell’orologio avevano da poco segnato le 23.30, quando il 57enne ha messo in scena il piano, già pensato e preparato secondo gli uomini in divisa. Il primo a perdere la vita è stato Andrea Marti. Il 36enne stava rientrando a casa con la fidanzata (originaria di Maglie), quando a pochi passi dalla porta di ingresso ha trovato Pappadà, fermo davanti a lui con la pistola in mano.

L’uomo ha farfugliato qualcosa prima di sparare al ragazzo, per due volte, davanti agli occhi della sua compagna. «Tu non c’entri nulla, allontanati» le avrebbe detto, probabilmente perché non voleva farle del male. Non a lei. La ragazza ha cercato riparo e ha chiesto aiuto, forse ha telefonato ai genitori di Andrea per raccontargli quello che era successo.

Il primo ad intervenire sarebbe stato un vicino che avrebbe cercato di calmare l’assassino, di frenare la sua ira. Anche in questo caso, Pappadà gli avrebbe detto di andare via.

Momenti che sono sembrati infiniti. Qualche minuto dopo, sono arrivati in macchina Franco Marti, la moglie Fernanda Quarta, la sorella della donna Maria Assunta e il marito (l’unico che non è rimasto ferito).

Pappadà avrebbe aperto il fuoco contro il padre mentre cercava di sincerarsi delle condizioni del figlio, in realtà già morto. Un colpo solo, fatale.

Ferite le due donne: Maria Assunta è spirata poco dopo l’arrivo in Ospedale, dove è giunta in condizioni disperate. I medici non hanno potuto fare nulla per salvarle la vita, le lesioni riportate erano troppo gravi.

Fernanda è l’unica che ce la farà: è stata accompagnata al Cardinal Panico di Tricase, dove si trova ora ricoverata nel reparto di chirurgia. 15 giorni di prognosi, questo raccolta il referto.

La pistola Smith & Wesson calibro 357 magnum con cui Pappadà ha sterminato un’intera famiglia era posseduta illegalmente, tant’è che è stato accusato anche di «detenzione e porto di arma clandestina».

I dissidi per il parcheggio alla base del triplice omicidio

Le due famiglie avevano discusso spesso, ma non c’erano mai state denunce né dall’una né dall’altra parte. Niente. Nessuna avvisaglia della follia. In paese però sapevano di questi litigi. Pappadà si era lamentato con tutti di trovare sempre il parcheggio occupato, ma – nonostante questo –  sembra che abbia sempre rifiutato la proposta del Comune di riservargli uno spazio per i portatori di handicap. Aveva risposto che non c’era bisogno perché nella strada c’era posto per tutti. Sarebbe bastato semplicemente “accordarsi” con i vicini, ma evidentemente quel punto di incontro non è stato mai trovato.

L’arrivo dei Carabinieri

Un grazie va alla pattuglia della Radiomobile di Maglie, intervenuta in pochi minuti sulla scena del delitto. Gli uomini in divisa sono riusciti a calmare il 57enne che, al loro arrivo, aveva ancora l’arma carica in mano. Avrebbe potuto sparare ancora, quindi. I Carabinieri sono riusciti a convincerlo ad arrendersi, dopo aver “negoziato” con lui. Un breve scambio di parole, per farlo ragionare.

Una volta conquistata la sua fiducia, il capo-equipaggio si è avvicinato a Pappadà, gli ha afferrato il braccio e lo ha indotto ad appoggiare lentamente a terra l’arma senza mai perderlo di vista e tenendolo sempre sotto controllo. Messa in sicurezza l’arma, l’uomo si è arreso ed è stato accompagnato in caserma, dove ha confessato.



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