19 controlli e mezzo risultati negativi (ci teniamo a dire e mezzo perché quello incriminato, effettuato quattro giorni dopo il rientro con vittoria del 31enne di Vipiteno, la prima volta aveva dato esito negativo); telefonate registrate in cui si consiglia al campione, prima che tornasse alle gare, di fare un tempo utile alla qualificazione olimpica, ma di non vincere e, infine, il tentativo di umiliazione con una sentenza per molto, troppo tempo posticipata del Tas e giunta quasi alla vigilia della 20 km di marcia delle Olimpiadi di Rio alla quale avrebbe dovuto prendere parte.
Otto anni di stop per una storiaccia di doping che fa acqua da tutte le parti, una sentenza già scritta quella che ha visto protagonista Alex Schwazer, carabiniere altoatesino, oro olimpico nella 50 km di marcia a Pechino nel 2008, squalificato nella serata di ieri dalla Tribunale Arbitrare dello Sport su richiesta della Iaaf, la Federazione Internazionale dell’Atletica.
Schwazer era stato “pizzicato” quattro anni fa esatti positivo all’Epo e lui, a differenza di tanti suoi colleghi che proclamano in malafede la propria innocenza, in una commovente conferenza stampa aveva ammesso tutto. A quell’episodio ha fatto seguito la squalifica di tre anni e otto mesi. Deciso a ritornare alle gare il campione aveva affidato la propria preparazione al guru dell’antidoping Sandro Donati, un personaggio scomodo visto che l’allenatore, oltre alle sostanze dopanti, conduce una battaglia contro gli integratori alimentari, poi il ritorno alle gare, il trionfo sbaragliando gli avversari e, infine, la seconda, sospetta, positività alle sostanze illegali.
Che il tutto fosse sin troppo equivoco lo si era intuito sin da subito, ma ciò che è saltato agli occhi di tutti immediatamente è il fatto di come le istituzioni sportive italiane e non, con un atteggiamento vigliacco, abbiano lasciato solo questo ragazzo, senza esprimersi nel merito. E sì perché in quest’ultimo mese in cui la vicenda è rimbalzata su tutti gli organi di informazione, il numero uno del Coni, Giovanni Malagò si è limitato a ripetere “Da presidente del Coni non commento la vicenda, aspettiamo la sentenza”.
La solita dichiarazione di circostanza, quella che consente, qualsiasi sia l’esito finale, di cadere in piedi. Troppo facile non assumersi responsabilità
Del resto, si sa, l’Italia è questa. Un popolo che in due guerre ha cambiato alleato in corso d’opera; che incensa oltremodo i perdenti e critica al limite dell’invidia chi ha Paese dà lustro in campo internazionale.
Altro atteggiamento, invece, quello di Vladimir Putin che, a poche ore dalla squalifica di decine di atleti russi, in una nazione che si è sempre portata da decenni la nomea di Paese in cui l’utilizzo di anabolizzanti e all’ordine del giorno, ha prontamente alzato la voce additando la decisione come un discriminazione nei confronti della Russia e proclamando l’innocenza dei suoi campioni.
Su tutto questo neanche il Premier Matteo Renzi, sempre pronto a lasciare impegni istituzionali per fare selfie con atleti e volti noti, vedasi gli ultimi scatti con indosso la divisa ufficiale degli olimpici a Rio con sullo sfondo il Cristo Redentore, in tutto questo ha speso una sola parola. Si sa, però, che come diceva Manzoni “Se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare” e neanche la personalità, aggiungiamo noi. Anche se un piccolo accenno di difesa lo si poteva spendere.
In tutto questo di una cosa siamo certi, certissimi, se Alex Schwazer fosse stato assolto da ogni accusa, tutti, ma proprio tutti avrebbero recitato frasi del tipo: “Non c’è stato mai il minimo dubbio sulla sua onestà. Non ho mai creduto alla storia del doping. È sempre stato un ragazzo pulito. È l’orgoglio dell’Italia” e via dicendo.
Ah, dimenticavamo un’ultima cosa: lo sport in cui siamo campioni mondiali, intergalattici, olimpionici e semi-dei è quello del salto sul carro del vincitore.
