Dalle pagliare ai muri a secco, come lo spirito di sopravvivenza diede vita al Salento

Queste strutture rappresentano una delle principali attrazioni turistiche del territorio salentino e hanno preso vita dall’ingegno e dalla capacità dei contadini. Si trovano in numerose campagne.

Inevitabile, quando si parla di Puglia, non fare riferimento ai trulli di Alberobello. Vuoi perché un certo cinema ha spesso, volontariamente, consegnato al pubblico l’idea di una regione culturalmente uniformata o perché quasi impossibile non trovarne una riproduzione negli autogrill e negozietti di souvenir sparsi da Manfredonia a Ostuni, sono ormai diventati un vero e proprio brand identificativo.

Ma se quelle strutture, per quanto caratteristiche, sono quanto resta di una storia piuttosto recente, scendendo più giù, le forme cambiano, le chiavi di volta spariscono dai tetti, la calce scompare dalle pareti e le pietre, non più lavorate, ma incastonate così come venivano estratte dal terreno, ne raccontano una ancor più antica che dice tutta la loro asprezza con un dialetto più cantilenato che ha il sapore di quella lingua, nata alla corte di Federico II, che avrebbe poi posto le basi per l’odierno italiano.

Una storia scritta per lo più dal sudore e dal sacrificio dei contadini che, per secoli, si ritrovarono a fare i conti con un territorio ostile, arido e sassoso, incapace di fornirgli lo stretto indispensabile alla loro sussistenza ma che, al tempo stesso, ne provocò ingegno e capacità.

Per chiunque, infatti, non abbia mai trascorso un week-end o una vacanza in Salento, con tutta probabilità le pajare (o pagghiare/i, a seconda della zona) e i chilometri su chilometri di muretti a secco che lo costellano e, come veri e propri dedali, ne costituiscono l’ossatura dai campi più pianeggianti fino ai terrazzamenti costieri, sapranno né più né meno che di semplici ricoveri agricoli e recinzioni tirate su per delimitarne i poderi ma, in realtà, sono il segno chiaro ed evidente della volontà di quegli uomini di plasmare e, nel tempo, rendere ospitale la propria terra, dissodandola, arandola e sfruttandone il primo frutto che, ancor prima di essere coltivata, poté offrirgli: la pietra, appunto.

Non è, quindi, difficile immaginare quanto dovette costargli e quanto sangue dovettero versare, dalle mani e non solo, per rimuoverla e guadagnarsi ogni volta quel tanto in più che gli consentisse di andare avanti e, chissà, non sia stato proprio il riecheggiare di quei macigni ammassati l’uno sull’altro, con il frinire delle cicale che fanno da sottofondo ai pomeriggi estivi, a suggerirgli musica e ritmo per pizziche e canti popolari che, ancora oggi, di quel tempo conservano la memoria e ci ricordano chi siamo e da dove veniamo.

Perché nel Salento non si butta via niente, men che meno le pietre, all’ombra delle quali è sorta la nostra civiltà che, seppur contadina, ci invidiano ovunque.

 



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