Nell’immaginario collettivo il rurale è, per antonomasia, quanto attinente al settore agricolo e quindi, per semplificazione, riferibile alla dimensione della campagna. In realtà il concetto è più complesso, ma questa visione semplificata è necessaria per trasferirci, idealmente, all’interno dello scenario rurale. La ruralità è oggetto di divagazione in più contesti, in primis per il problema dell’identificazione delle aree rurali a fini della programmazione di interventi spazialmente differenziati di politica socio-economica. Va detto che, nel tempo, l’approccio utilizzato per analizzare la ruralità ha risentito di una variazione nella spazialità, tanto che da un approccio unidimensionale agricolo si è passati a una bipolarità urbano-rurale, introducendo una certa continuità unidimensionale del posizionarsi dei territori tra i due estremi (molto rurale – molto urbano), per giungere a un approccio multidimensionale, ampiamente prevalente, che parte dal presupposto che vi sia un insieme di indicatori economici e sociali da mettere a sistema.
Ruralità evoluta, tanto che si evidenzia la necessità di un nuovo approccio di osservazione; è superata – ma non precisamente definita – l’accezione del territorio rurale come agricolo, residuale, periferico e in ritardo di sviluppo, contrapposto a tutto ciò che si soleva definire urbano. Oggi la ruralità è concetto complesso: multidimensionale e multifunzionale. Se è vero, infatti, che in agricoltura l’approccio vincente è quello multifunzionale, altrettanto vero è che la ruralità stessa è anch’essa multifunzionale.
Agricoltura, agroalimentare, territorio, ambiente, sostenibilità, turismo… sono alcune delle keywords che potremmo richiamare a sostegno di quanto affermato. Ciò implica l’importanza della dimensione sociale della ruralità, con l’insieme di valori a essa sottesi: sviluppo, sostenibilità, inclusione, partecipazione, solidarietà.
Il concetto di solidarietà, però, è in crisi: è diffuso un individualismo sfrenato, denso di antagonistmi. Un soggettivismo – per dirla alla maniera di Umberto Eco – che ha compromesso le basi della modernità, rendendola fragile; una situazione in cui si dissolvono i punti di riferimento e avanza la liquidità baumaniana. Si perde la percezione di alcune certezze; ha il sopravvento l’apparire a tutti costi e il nuovo valore supremo è nel consumismo. Atteggiamenti frenetici, in cui valori e oggetti sprofondano rapidamente nell’obsolescenza e si passa da un consumo all’altro perdendo di vista il valore dell’emozione. Una modernità liquida, alla stregua di Bauman: “La convinzione che il cambiamento è l'unica cosa permanente e che l'incertezza è l'unica certezza”. Si potrebbe aggiungere, osando un po’, una “società liquefatta”, priva di forme e incline a defluire, per scorrimento gravitazionale. Da qui una ruralità liquida, in cui, ad esempio, la pluralità di punti di vista ha generato individualismi esasperati. L’evoluzione di quella dimensione “contadina”, tradizionalmente vocata alla sussidiarietà e alla solidarietà, ha portato alla nascita di atteggiamenti di mera chiusura, nella generale impossibilità di porre in essere dialoghi costruttivi.
L’agricoltura sta vivendo grandi mutamenti: sta attraversando quella che potremmo definire come nuova rivoluzione agricola. C’è molta confusione e, si sa, nel caos accadono cose strane. Accade, ad esempio, che si sovvertano ordini e valori, che si stravolgano le prospettive, che si perdano di vista gli obiettivi. Già, gli obiettivi. Ciascuno dei soggetti in scena sembra averne di propri; ciascuno si arroga il “diritto ad aver ragione”. Ed è così che si creano chiusure, si alzano muri piuttosto che incentivare il dialogo. Prevale la logica della prepotenza data dai numeri. Le idee, anche quelle propositive, lasciano il tempo che trovano se non sono “sponsorizzate” dal giusto patròn.
Si acuisce la dicotomia tra chi vive quotidianamente le difficoltà della ruralità (aziende agricole nella morsa di questioni gravi, dalla siccità, alla xylella, all’accesso ai mercati, alla concorrenza estera, all’impossibilità di accesso al credito, per citare casi estremi) e chi, dimentico del proprio ruolo, preferisce fare il frontman in uno show dal gusto amaro. Il riferimento non è alla politica, non potrebbe essere. L’amarezza scaturisce dall’osservare i comportamenti di diversi tecnici e addetti ai lavori, spesso impegnati anche in ruoli dirigenziali, i quali sono più proiettati verso atteggiamenti politici che non propensi a essere concretamente propositivi. È chiaro come tali atteggiamenti abbiano potuto produrre, nel tempo, la necessità di un certo riscatto dal basso: ecco perché, da un certo punto in poi, chiunque ha preteso il proprio “diritto di parola”. Risultato? L’autogestione condizionata da informazione fuorviante, incompleta, a volte tendenziosa. Forme di comunicazione subdole che hanno procurato non pochi allarmismi, oltre che veri e propri conflitti.
Il rurale che balza quotidianamente agli onori delle cronache grazie a penne capaci di emozionare, ma spesso rasentando il ridicolo ad una lettura tecnica. Evito di esprimermi sull’abominio di accuse rivolte a quanti fanno ricerca in agricoltura; mi limito a dire che reputo sacra la ricerca ed è altamente offensivo non concedere a tutti i ricercatori in campo la giusta dignità (mi riferisco ai ricercatori veri, non alle comparse, tanto meno agli stregoni).
Alla luce di tutto ciò si rende indispensabile un invito, per qualcuno, a fruire delle ferie estive per riflettere sulla deriva che si sta creando e per riconsiderare, ciascuno per quanto di competenza, ruoli e doveri. Nel rispetto dei ruoli e nell’osservanza dei doveri. Il suggerimento è quello di aprire un dialogo sano, costruttivo e funzionale alla focalizzazione delle priorità dell’agricoltura regionale e nazionale; ben venga la discussione pluralista, ma l’obiettivo, per favore, quello sia unico e strategicamente delineato.
Per il bene dell’agricoltura e della società. Per superare la ruralità liquida.
di Alessandra Miccoli