
C’è chi l’ha definita «la cattedrale più bella del mondo» e chi ama chiamarla «la cappella sistina del Neolitoco». C’è chi è convinto che proprio lì sia approdato l’eroe di Virgilio, Enea nel suo viaggio in Italia dopo la fuga di Troia. C’è anche chi non sa che in quel lembo di terra fino a poco tempo fa sconosciuto è nascosto uno scrigno prezioso per l’incommensurabile valore artistico e culturale. In quel luogo dal mare blu cobalto c’è la Grotta dei Cervi, invisibile e preziosa.
La scoperta
Era 1 febbraio del 1970, quando un gruppo di speleologi scoprì casualmente l’ingresso della Grotta dei Cervi di Porto Badisco, regalando al Salento un ‘gioiello’ unico e raro. Quel giorno d’inverno Severino Albertini, Isidoro Mattioli, Remo Mazzotta, Daniele Rizzo ed Enzo Evangelisti svelarono uno dei principali monumenti del neolitico in Europa, grazie ai suoi 3mila pittogrammi in ocra rossa e guano di pipistrello che hanno affascinato e continuano ad affascinare gli scienziati di tutto il mondo.
Danze rituali, scene di caccia, simboli ancora tutti da decifrare e persino mani di bambini rimasti lì per migliaia di anni. Eppure a dispetto della sua importanza pochi, pochissimi hanno avuto l’onore di visitarla. Le delicate condizioni di umidità e di temperatura che hanno permesso la miracolosa conservazione delle pitture sarebbero, infatti, alterate dalla presenza di visitatori, portando al rapido degrado dei disegni.
Un destino amaro per la Grotta, condannata a restare chiusa per sempre o almeno fino a quando la “tecnologia” non riuscirà a salvaguardare la sopravvivenza dei pittogrammi. Così com’è serve a poco, o a nulla. Averla o non averla, direbbe qualcuno, è la stessa cosa. Eppure è stata persino candidata a diventare patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco. Eppure fa piacere che sia lì, a sorvegliare dalla scogliera le avances del mare (Jonio e non Adriatico) istigato dallo scirocco, a fare da ‘sentinella’, solitaria e impenetrabile, all’insenatura consapebole di quel destino ingiusto che l’è toccato in sorte.