Il castello Aragonese di Otranto non è solo un capolavoro di architettura militare da visitare almeno una volta nella vita. La fortezza affacciata sul mare, che guarda a Oriente, ha tante storie da raccontare, più o meno conosciute. Le mura possenti dell’imponente struttura, che ha ispirato il primo romanzo gotico della storia – il bestseller di Horace Walpole – raccontano dei secoli bui, fino all’invasione dei turchi del 1480. Anche il maniero, costruito per difendere la città dai nemici, pagò caro il prezzo del passaggio dell’esercito guidato da Gedik Ahmed Pascià che causò morte e distruzione. Parla anche di rinascita, con Federico II di Svevia e Alfonso D’Aragona, il duca di Calabria che lo ricostruirono trasformandolo in un gioiello.
Il maestoso scrigno di arte e cultura che oggi protegge il centro storico, dove si affacciano balconi fioriti, botteghe e ristorantini che sbucano all’improvviso, illuminati dalla prima alba d’Italia, sussurra anche leggende. Ogni Castello ha il suo fantasma, a Otranto ha il nome di Giulio Antonio Acquaviva, conte di Conversano. Abile spadaccino aveva fatto strage di saraceni ma, alla fine, era stato ammazzato e decapitato da un colpo di scimitarra. Da quel giorno, si mormora, il cavaliere senza testa si aggira nelle notti di agosto nei sotterranei, fino al bastione a forma di lancia.
Il fantasma di Giulio Antonio Acquaviva, conte di Conversano
Dal bastione Punta di Diamante, che regala la vista più bella su tutta Otranto, venivano lanciati in mare tutti i prigionieri che tentavano la fuga. È li che torna Giulio Antonio Acquaviva, conte di Conversano, che non restò a guardare l’assalto dei turchi diretti a Brindisi e sbarcati a Otranto solo per caso, perché quel giorno soffiava un vento forte. Il condottiero, nonostante l’età avanzata, si mise a capo di un piccolo esercito e affrontò i saraceni, battendosi valorosamente. Ferito e decapitato restò in sella al cavallo (secondo alcuni per miracolo, secondo altri per via delle barde che si portavano in quei tempi) fino a quando il suo fido destriero non lo condusse al Castello di Sternatia. Mentre al corpo fu data degna sepoltura, la testa del Conte fu inviata a Bisanzio come dono al sultano. Ora riposa accanto alla moglie, Caterina Orsini del Balzo.
La storia d’amore impressa nella pietra
Nella cappella, un tempo intitolata a Sant’Antonio da Padova come suggerisce il cartiglio in spagnolo «por su devoción» riferito al santo portoghese, è impresso nella pietra il pianto del cappellano dell’epoca che dedicò una tenerissima epigrafe alla moglie Donna Teresa De Azevedo, morta il 23 febbraio del 1707. Una lettera che racconta una storia d’amore in grado di resistere al tempo e al dolore. Chi fosse la nobildonna, scomparsa in giovane età, lasciando il consorte in preda alla disperazione, lo recita un epitaffio.
“Qui giace un esempio di pudicizia e un modello di onestà, dall’aspetto di una dea (oh, quale dolore!), donna Teresia de Azvedo. Discendente di una nobilissima famiglia spagnola, venne improvvisamente rapita dalla morte il settimo giorno delle calende di marzo 1707. Il suo dilettissimo marito, don Alfonso de la Serna e Molina (proprietario regio e prefetto del Castello), pose qui questa lapide sepolcrale. Egli spera che al momento della sua morte seguirà la sua degnissima moglie, come in terra così in cielo”.
Sulla parete si può ammirare l’affresco di un aristocratico, forse il malinconico Don Francesco che avrebbe fatto imprimere lì la sua effigie per vegliare in eterno la sua diletta sposa e la cappella sottostante, dove ancora il loro amore continua a vibrare.
In questo luogo fuori dal tempo si possono intravedere, in alto, le tracce dell’antica grata murata, da cui i nobili potevano assistere alle funzioni religiose senza mischiarsi ai soldati.
Ph. Fabrizio Martella, caprarica.eu