Lecce non ha bisogno di biglietti da visita, ogni strada è piena di cartoline che incantano i turisti in vacanza nel Salento che dedicano sempre una giornata alla scoperta della città barocca, delle sue Chiese, dei palazzi che si affacciano nel centro storico, dei monumenti che raccontano storia e tradizione.
C’è però un posto che vale la pena di visitare: l’Arco di Prato, un angolo “intoccabile” per i leccesi, ammirato, fotografato e persino citato in una canzone di Bruno Petrachi in cui l’artista salentino racconta l’aneddoto legato a Ferdinando di Borbone.
“Maestà, questo è l’Arco di Prato”
Si narra che nel 1797 il Re Ferdinando IV di Borbone, giunto a Lecce per partecipare alle nozze del principe ereditario Francesco con Maria Clementina d’Asburgo, durante un tour alla scoperta della città, fu accompagnato dall’allora sindaco Oronzo Giosuè Mansi davanti al monumento del cinquecento indicato come esempio di bellezza architettonica.
«Maestà, questo è l’Arco di Prato» disse con un pizzico di orgoglio, ma il Sovrano risposte in perfetto napoletano «me ne fotto», te bottu come canta Bruno Petrachi nel brano del 1938. Da quel momento a Lecce, per manifestare disinteresse si usa l’espressione: “Arcu te Pratu” come sinonimo di colorita noncuranza.
In realtà, il Sindaco aveva già vendicato quell’affronto. Giunto il momento della partenza, Re Ferdinando si ritrovò in una piazza Duomo deserta. Così chiese spiegazioni al primo cittadino Mansi che non aveva dimenticato quella battuta infelice. Maestà, disse, Lecce è città de arte: se ‘nde futte te ci rria e de ci parte.
Leonardo Prato
Aveva ragione il primo cittadino, l’arco di prato è molto di più di un semplice, ma sontuoso portale che immette nella corte su cui si affaccia la residenza della potente e antica Famiglia Prato. Il padrone di casa Leonardo, capitano dell’Ordine dei Cavalieri Gerosolomitani, nel 1479 diede lustro alla casata distinguendosi nella battaglia di Rodi contro i Turchi. Il suo nome è legato anche alle trattative di pace con il Pascià.
Alla sua morte sul campo di battaglia di Bellaere, fu seppellito per meriti militari (aveva combattuto anchela guerra contro i francesi, a fianco del Pontefice) nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia, dove per volere della Serenissima fu costruita in suo onore anche una statua equestre sulla sua tomba.
C’è anche un’altra leggenda legata a questo luogo, testimone silenzioso del passaggio dei romani, dei normanni e degli aragonesi e diventato uno dei più visitati dagli “stranieri” venuti a conoscenza della sua affascinante storia. Si dice che Leonardo Prato era riuscito ad ottenere una speciale “concessione” dal sovrano Carlo V: chiunque riusciva a passare sotto l’Arco di Prato conquistava l’immunità: non poteva essere arrestato.
L’arco
L’arco a tutto sesto, sostenuto da pilastri quadrangolari, sorregge una piccola loggia su cui è visibile il più antico stemma della città.
La profonda arcata è affiancata sul prospetto principale da due slanciate paraste e, in tono celebrativo, presenta scolpiti sui pennacchi gli stemmi dell’illustre famiglia Prato, attualmente poco leggibili. Altri elementi decorativi sono costituiti da un’elegante voluta inserita al centro dell’Arco e, nella parte superiore, da una balaustra in cui cinque balaustrini sagomati si alternano ritmicamente a piccoli pilastrini a sezione quadrata.
A pochi passi c’è Palazzo Prato costruito secondo regole architettoniche di chiaro stampo militaresco, solenne e austero, monumentale nelle proporzioni e essenziale nell’aspetto. E una cisterna cui un’iscrizione latina attribuisce il ruolo di torre colombaia.
I segni che ha lasciato il tempo sono ben visibili sulle effigie degli angioletti o sulle decorazioni barocche.
La foto di copertina è di Francesco Bello