Il giorno dopo l’arresto di Perrone. Una comunità allo specchio che deve interrogarsi

Il boss condannato all’ergastolo per un omicidio nel 2014 e fuggito rocambolescamente dall’Ospedale Vito Fazzi di Lecce, ha goduto di una rete di protezione in città. Tanti gli interrogativi che devono essere posti.

Con l’arresto di Fabio Perrone, il pericoloso boss condannato all’ergastolo che era evaso dall’Ospedale Vito Fazzi di Lecce dove era stato tradotto dal carcere di Borgo San Nicola per una visita medica, non si chiude una delle più tristi vicende dello scorso 2015. Tutt’altro, si apre invece una pagina di profondi interrogativi, a cui occorre in fretta dare una risposta.

Intanto la sicurezza del personale di polizia penitenziaria e dei cittadini tutti negli spostamenti dei pericolosi malavitosi dal carcere in cui sono detenuti ai vari luoghi a cui vengono condotti per un trasferimento qualsiasi: aule di tribunali, ospedali, altri istituti penitenziari, ecc…

Dopo l’episodio di Perrone che con una facilità degna delle fiction cinematografiche è stato in grado di liberarsi dal controllo della sua scorta e sparire – smaterializzandosi – da un luogo (il Vito Fazzi) che non è certo una piccola ‘pagliara’ di campagna, il problema della sicurezza è tutt’altro che accantonato. Provate voi a sparire dall’Ospedale leccese che è un ginepraio di sensi unici di marcia!

Triglietta è stato nella sua Trepuzzi, non a New York…, per circa settanta giorni e ci è voluta un’autentica operazione interforce per riportarlo alle patrie galere.

E’ bene che la comunità salentina si interroghi su quella che ieri abbiamo chiamato la rete di relazioni che ha protetto l’ergastolano nella sua fuga, fatta anche di persone sconosciute agli inquirenti perché incensurate.

Fabio Perrone si era nascosto in un’ anonima palazzina in via 2 giugno a Trepuzzi, di proprietà di un uomo che al momento è stato tratto in arresto per aver favorito il suo soggiorno da evaso. Nessuno si era accorto di nulla. Di più: si spostava con una paletta della Polizia di Stato da una via all’altra del paese. E aveva due armi con il colpo in canna: la pistola di ordinanza dell’agente di polizia penitenziaria dal quale si era liberato nella fuga e un kalashnikov. E disponeva di quasi 5mila euro in contanti.

Insomma, non archiviamo tutto con la storia della ‘maggiore serenità’ della collettività salentina dopo l’arresto. C’è ben poco da sentirsi sicuri se si possono verificare episodi del genere che fortunatamente si sono conclusi senza spargimento di sangue per la bravura degli agenti impiegati e di chi li ha coordinati. Ma i complimenti, da soli, non bastano.



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