Il posto nell’organizzazione stabilito con i “punti”. Ecco perché è stato ucciso Francesco Fasano

Francesco Fasano sarebbe stato ucciso per lanciare un “avvertimento” al gruppo di cui faceva parte. Era già sfuggito ad un agguato il giorno del suo compleanno, quando si trovava in macchina con Bevilacqua.

Erano fuori controllo da quando la morte di Emanuele Cesari – il 37enne di Melissano raggiunto da alcuni colpi di arma da fuoco, tra cui quello letale che ha colpito fegato e reni – aveva lasciato vacante la poltrona di leader dell’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti. Quel giorno [era il 27 marzo quando il cuore del giovane aveva smesso di battere] l’unica preoccupazione della consorteria era trovare un degno sostenuto, un nuovo “broker della droga”. Non era facile sostituire una “figura forte” che, con il suo carattere litigioso e propenso agli scontri fisici, era riuscito a tenere uniti i componenti del gruppo, ma dopo una girandola di nomi la scelta è ricaduta su Daniele Manni.

Poteva essere un nuovo inizio, un’occasione per conquistare Melissano e imporsi sul territorio, ma il nuovo ‘capo’ non è stato in grado di mantenere saldo il sodalizio che aveva dato prova di saper uccidere. C’è voluto poco per far emergere i primi contrasti, soprattutto se in ballo c’erano i soldi, tanti soldi. Nonostante la diversità di vedute e i mancati accordi, l’organizzazione criminale era riuscita a portare avanti l’attività, mettendo da parte rancori e gelosie. E lo ha fatto fino a quando le fratture sono diventate insanabili.

La guerra interna per i “punti”

Le prime crepe sono emerse quando è arrivato il momento di stabilire i compensi da attribuire ai vari livelli dell’associazione. Chi aveva più punti, “guadagnati” con gli anni di carcere e in base al curriculum criminale, avrebbe dovuto avere più peso e potere nel gruppo. Un vero e proprio concorso per titoli, dove il posto più importante lo occupa chi sale in alto nella graduatoria.

Non è stato così. Nell’organizzazione di Manni erano riusciti a farsi spazio anche personalità più giovani, ma non meno determinate. Non era la vita reale, non c’era il Tar a cui rivolgersi per il maltolto, qui per far rispettare la legge c’erano le armi, le intimidazioni e tutto ciò che l’ingegno dettava per fare sì che tutto rientrasse nei binari in maniera, per così dire, alternativa.

Insomma, il criterio da seguire per riorganizzarsi dopo Cesari, talmente semplice, alla fine gli si è ritorto contro: è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, creando una rottura, irreversibile. Gli ex “amici” erano diventati “nemici”, se non altro rivali.

Le fazioni

Da una parte si era schierato Manni, forte della sua ‘carriera’ nella malavita di tutto rispetto che aveva “arruolato” Antonio Librando, “il mediatore” del gruppo, Gianni Vantaggiato, Luca Piscopiello e il resto della famiglia Manni, papà Luciano e il fratello Maicol. Rientrava in questa frangia anche Luca Rimo, che rivestiva il ruolo di spacciatore. Completava il quadro Angelo Rizzo, accusato dell’omicidio di Francesco Fasano (insieme a Daniele Manni).

Dall’altro c’era Pietro Bevilacqua, Biagio Manni e la vittima. “Pochi, ma altrettanto pronti a farsi strada. Bevilacqua, poi, è un volto balzato spesso agli onori della cronaca locale come quando si presentò in Caserma e prese a calci e pugni il carabiniere, colpevole (a suo dire) di aver arrestato il fratello minore. 

Tra le due fazioni era in atto una vera e propria guerra per avere il monopolio del territorio, per essere i re indiscussi del traffico di sostanze stupefacenti, particolarmente “redditizio” nella zona. Del resto, gli altri clan che avevano allungato le mani sul mercato della droga erano stati smantellati in diverse operazioni delle forze dell’ordine (Diarchia, ad esempio).

Ogni gruppo tentava di prevalere sull’altro, usando la violenza e quelle logiche criminali che hanno portato a usare le armi, quelle armi di cui non c’è traccia. Nelle perquisizioni dopo i dieci fermi sono spuntati fuori ‘solo’ 600 grammi di polvere pirica. Non è stata trovata la Calibro 9 con cui è stato freddato il 22enne di Melissano.

Sapevano che sarebbe successo qualcosa

Il clima era teso. I componenti dei due gruppi si guardavano le spalle, erano consapevoli del rischio che correvano ogni giorno, sapevano che sarebbe successo qualcosa. Erano preparati, insomma e c’erano già stata delle avvisaglie. È in questo contesto che si inserisce l’omicidio di Fasano: il gruppo di Manni doveva mandare un messaggio ai rivali e ha scelto, forse, l’anello forse più debole della catena.

L’esecuzione era nell’aria. Il 22enne lasciato senza vita sull’asfalto sulla vecchia strada che conduce ad Ugento era già sfuggito ad un agguato il giorno del suo compleanno. Era il 19 luglio, quando è stato raggiunto da alcuni colpi di pistola mentre si trovava in macchina con Bevilacqua. Ad impugnare la pistola, probabilmente, era Daniele Manni accusato anche di tentato omicidio. Su quell’episodio, però, era calato un velo di omertà: nessuna denuncia, niente di niente. Neanche della macchina ‘crivellata’ c’è traccia o almeno non è in quelle sequestrate nell’indagine.

Cinque giorni dopo, l’uccisione. Secondo gli inquirenti, è stato Daniele Manni, insieme a Rizzo, a puntare l’arma alla tempia del 22enne, non lasciandogli scampo. Da qui, l’accusa anche di omicidio.

Il cerchio è stato chiuso grazie al lavoro di squadra. Una “perfetta sinergia” tra i carabinieri del Nucleo investigativo, i colleghi della compagnia di Casarano e la magistratura. Le intercettazioni, le indagini classiche, ma soprattutto la “conoscenza del territorio” hanno fatto il resto.

In queste ore, la Compagnia guidata dal comandante Errico è diventata una “centrale operativa”, dove gli uomini in divisa hanno lavorato fianco a fianco fino a quando è stato firmato il decreto di fermo.

Zanchi “Un lavoro unico”

«Un risultato eccezionale, conseguito in meno di 24 ore – ha affermato il Comandante Provinciale della “Benemerita” Gianpaolo Zanchi – Un risultato unico che deve essere interpretato dai cittadini e dalle comunità come un segnale di ottimismo. L’attività investigativa è stata molto complessa e ha preso il via dall’omicidio di Emanuele Cesari, un lavoro costituito da indagini tradizionali supportate da quelle che utilizzano la tecnologia moderna»

«Quello di oggi è stato un passo importante, ma le indagini sono tutt’altro che concluse, si continua a lavorare sull’esame dei reperti e attendiamo i risultati tecnico-scientifici e altri riscontri che ancora devono essere conclusi».



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