La rupe della dannata e la leggenda della fanciulla che si tolse la vita

Secondo la leggenda una fanciulla morì gettandosi dalla rupe della dannata pur di sfuggire al “ius primae noctis” imposto dal Guercio di Puglia

Sul lungomare di Santa Caterina è impossibile non immortalare lo scorcio regalato dalla Torre di Santa Maria dell’Alto, costruita su progetto del viceré spagnolo Don Pietro da Toledo e terminata nel 1569 dal mastro neretino Angelo Spalletta per proteggere la terraferma dagli attacchi dei turchi e dei pirati saraceni. Il progetto prevedeva la realizzazione di un piano terra con la cisterna, il deposito e la stalla; di un primo piano, dotato anche di un camino, dove alloggiavano il caporale e i cavallari (così venivano chiamate le guardie che presidiavano la torre e in che in caso di eventuali arrivi di pirati lo segnalavano ai paesi dell’entroterra utilizzando il cavallo); all’ultimo livello c’è la guardiolada cui si poteva sparare con i falconetti contro le imbarcazioni nemiche.

Quando non serviva più difendere il territorio dagli ‘stranieri’, la struttura – conosciuta anche come torre “del salto della capra” – era stata trasformata, stando ai documenti dell’epoca, in un vero e proprio lazzaretto per il ricovero di infermi “Turchi seu Schiavi”.

Maestosa ed elegante, la costruzione militare fa da guardia alla costa dal dirupo della dannata dove, secondo la tradizione popolare, venivano gettati in mare i condannati a morte, ma c’è un’altra leggenda connessa alla scogliera. Il suo nome è legato alla storia di una fanciulla che, pur di sfuggire al “ius primae noctis” imposto dal Guercio di Puglia, preferì togliersi la vita, lanciandosi dalla rupe. Come spesso accadeva a quell’epoca, infatti, le giovani spose, soprattutto se belle, erano costrette a soddisfare le voglie del feudatario nella prima notte di matrimonio.

La leggenda

da “La rupe della dannata”, di Antonio Errico

Il giorno delle nozze era vicino, quando nella masseria, dove la fanciulla viveva si avvicinarono alcuni uomini a cavallo.

«Che volete? » disse il massaro.

«A giorni vostra figlia si marita», rispose lo sgherro.

«La sera che vostra figlia si marita, quando si sarà fatto tutto scuro, qui verrà una carrozza con gli sfarzi e la porterà al palazzo di Nardò, che il conte vuole tributare il giusto omaggio che spetta alla bellezza della sposa» continuò l’altro.

«Ognuno conosceva la costumanza infame che aveva Gian Girolamo Acquaviva, conte di Conversano e signore di Nardò, la cui crudeltà poteva pareggiare solo con la bruttezza della sua figura. Piccolo, magro, con un occhio infossato, veniva detto il Guercio da chiunque, da chi gli voleva male e da chi gli voleva bene. Più volte aveva dato prova della sua ferocia. Più volte di non avere timore neppure di Dio».

Il mattino dopo, la ragazza tesseva al telaio. La madre arrivò alle sue spalle e cominciò ad accarezzarle i lunghi capelli neri. La giovane avvertì un tremore della mano. Si voltò. Si accorse che la madre tratteneva il pianto.

«Non siete felice, madre?» domandò.

La donna non rispose.

Allora la ragazza chiese un’altra volta: «Non siete felice? Dite, che cosa vi turba il cuore, madre».

La donna cominciò a singhiozzare. Stringeva la figlia al petto e singhiozzava. Quando il singhiozzo si fu placato, prese le mani della ragazza fra le sue e cominciò a parlare.

«Ti rammenti dei due uomini che vennero qui ieri? Venivano a portare l’ambasciata del conte Gian Girolamo Acquaviva», disse

«Che ambasciata» chiese la ragazza.

«Che il Guercio vuole la tua prima notte».

Tra le due donne si spalancò un silenzio nero. Aveva sentito, la ragazza, quella storia del conte, però aveva pensato fosse diceria, ciarla maligna, mormorazione fatua. Ora aveva gli occhi affondati dentro il nulla.

Avrebbe voluto piangere e non riusciva. Avrebbe voluto chiedere e non sapeva che cosa chiedere. Aiuto, forse. A chi. Certo non poteva al suo promesso sposo, perché lo avrebbe spinto all’omicidio, perché avrebbe distrutto la sua vita.

Si fece sera. Poi fu notte fonda. La fanciulla mise l’acqua nella tinozza e si lavò. Poi si pettinò a lungo e lentamente. Indossò il vestito di sposa ricamato. Uscì. C’era la luna alta e un vento lieve. C’era odore di mare e rosmarino. Cento volte e cento aveva fatto quel tragitto.

Camminò piano. Giunse alla torre di Santa Maria dell’Alto. Si fece il segno della croce e cominciò a pregare. Poi si lasciò cadere e la sua veste bianca per un istante sembrò la scia di una cometa.

Si dice che in certe notti di luna piena, ai piedi della Torre dell’Alto, a Santa Caterina di Nardò, ancora si veda una donna vestita da sposa, che prega sullo sperone di roccia a strapiombo sul mare.
Si dice.

Esiste anche una variante della leggenda secondo la quale a perdere la vita fu, invece, il Duca Giovan Bernardino Acquaviva che, nel cercare di sfuggire ai pirati saraceni, precipitò dallo sperone roccioso, non accorgendosi del pericolo a causa del buio.



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