Don Peppe Diana, la storia del parroco ucciso dalla camorra

Era il 19 marzo 1994 quando Don Giuseppe Diana, per tutti Don Peppino, fu assassinato dalla camorra nella sacrestia della Chiesa di San Nicola da Bari a Casal di Principe.

«A me non importa sapere chi è Dio! A me importa sapere da che parte sta.»
(Don Peppe durante un’omelia)

L’orologio aveva da poco segnato le 7.20 quando nella sacrestia della Chiesa di San Nicola di Bari, a Casal di Principe, si presenta uno sconosciuto. «Chi è Don Peppe», chiede. «Sono io», risponde il parroco. Furono le sue ultime parole. Restò il rumore di quei colpi di pistola che non lasciarono scampo a Don Giuseppe Diana, Don Peppe per tutti, un sacerdote ‘scomodo’ per la camorra che quel parroco aveva combattuto con la sola arma della parola, con la predica. Non aveva paura di parlare Peppino, in quel periodo in cui i clan dei Casalesi controllavano la zona con i loro traffici. Il killer lo uccise mentre si stava preparando a celebrare la messa, lo lasciò in una pozza di sangue, senza vita. Era il 19 marzo 1994.

“Per amore del mio popolo non tacerò “

Come ha scritto Saviano «Don Peppino non voleva fare il prete che accompagna le bare dei ragazzi soldato massacrati dicendo ‘fatevi coraggio’ alle madri in nero. A condannarlo fu ciò che aveva scritto e predicato. In chiesa, la domenica, tra le persone, in piazza, tra gli scout, durante i matrimoni. E soprattutto il documento scritto assieme ad altri sacerdoti: Per amore del mio popolo non tacerò» Si tratta di uno scritto pubblicato il giorno di Natale del 1991, una testimonianza del suo impegno contro la camorra. Quattro pagine che avevano ‘urtato’ la sensibilità della criminalità organizzata. Ma non era stato un caso isolato. Peppino combatteva i clan con tutti i mezzi che aveva a disposizione, denunciava dal pulpito l’arroganza dei camorristi, organizzava manifestazioni contro le bande malavitose, invitava i concittadini a non votare i politici collusi. Un coraggio che paga con la vita.

L’omicidio di Don Peppino

Il prete di Casal di Principe, un paesino tra Caserta e Napoli aveva appena indossato i paramenti sacri quando fu ucciso. Tutti i colpi sparati andarono a segno: alla testa al volto, alla mano, al collo. Un omicidio, non c’erano dubbi. E non era neppure il primo. Era ancora forte il dolore per la scomparsa di Don Pino Puglisi, anche lui condannato a morte da Cosa nostra. La mafia non risparmiava nessuno, neppure gli uomini di Chiesa. Un delitto che sarebbe rimasto sicuramente chiuso in un cassetto, forse senza nomi né volti se non ci fosse stato Augusto, un fotografo che si trovava in Chiesa per dare per primo gli auguri di buon onomastico all’amico sacerdote. Fu lui a riconoscere Giuseppe Quadrano, il killer di don Diana.

Il processo

Dopo la morte si tentò in ogni modo di infangare la figura di Don Diana, accusandolo di frequentare prostitute, di essere pedofilo, di essere vittima di un regolamento dei conti per aver custodito le armi che avrebbero dovuto uccidere il procuratore Cordova. Il Corriere di Caserta, pubblicò in prima pagina il titolo “Don Diana era un camorrista”. Passò qualche giorno e un altro titolo cercò di offuscarne il ricordo “Don Diana a letto con due donne”, si leggeva. Il tentativo di descriverlo non come vittima della camorra, ma come soldato dei clan fallì. Incredibilmente, quel prete ucciso continuò a far paura anche da morto. Le fazioni in lotta di Francesco Schiavone detto Sandokan e di Nunzio di Falco cominciarono a rinfacciarsi reciprocamente la colpa del suo sangue, proponendo di testimoniare la loro estraneità a modo loro, per togliersi di dosso il peso dell’uccisione di quell’uomo.

Alla fine, Nunzio De Falco è stato condannato in primo grado all’ergastolo il 30 gennaio 2003 come mandante dell’omicidio. Inizialmente tentò di far cadere le colpe sul rivale Schiavone, ma il tentativo fallì perché Giuseppe Quadrano, autore materiale dell’omicidio iniziò a collaborare con la giustizia e per questo ricevette una condanna a 14 anni.



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