L’articolo 3 della Costituzione italiana distingue due tipi di eguaglianza, parimenti importanti, ma soprattutto complementari. Il comma 1 si riferisce all’eguaglianza detta formale:
«Tutti cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Il comma 2 si riferisce all’eguaglianza detta sostanziale:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Insomma, abbiamo tutti la stessa dignità astratta e gli stessi diritti fondamentali, ma i più non possono vivere degnamente ed esercitare quei diritti per povertà, malattia, solitudine ecc.; allora la Repubblica è incaricata non solo di garantire a tutti eguali punti di partenza, ma di garantire anche condizioni di pieno sviluppo e di piena partecipazione a coloro che, per disagio e marginalità, non riescono a stare al passo dei più dotati, che spesso sono semplicemente i più fortunati (i nati nei posti giusti, nei momenti giusti, nelle famiglie giuste…). Ciò non significa naturalmente eguaglianza dei punti di arrivo, ma significa tentativo di ridurre le distanze: di reddito, di ricchezza, di dignità.
Come si pone la dottrina meritocratica rispetto ai due principi di eguaglianza?
La risposta è facilmente intuibile quanto all’eguaglianza sostanziale. Alla meritocrazia l’eguaglianza sostanziale non interessa. La meritocrazia propone che tutti siano posti sulla stessa linea di partenza (il che, peraltro, è perfettamente utopico). Poi si disinteressa di chi arriva tardi e non si aggiudica mai alcun premio. Figuriamoci cosa le importa di chi non arriva affatto, di chi cade lungo il tragitto e non riesce a rialzarsi da solo.
Quanto, invece, all’eguaglianza formale, in prima battuta si potrebbe pensare che la meritocrazia la promuova: non propone certo di ridurre le diseguaglianze (eguaglianza sostanziale), ma, almeno a parole, propone l’eguaglianza delle opportunità, dei punti di partenza. Solo a parole, tuttavia. Se, infatti, c’è sempre un premio da distribuire ai ‘migliori’, un finanziamento da erogare ai ‘più abili’, una promozione da assicurare ai ‘più capaci’, se, insomma, il lavoro è continuamente sotto il ricatto di ‘valutazioni’, di ‘gare’, se il lavoro si riduce a un’«arena» (metafora tipicamente meritocratica) in cui sono destinati a sopravvivere solo gli «eccellenti», allora l’incentivo a barare, a discriminare è continuamente alimentato.
Diciamolo in altri termini. In un ambiente in cui si lavora anche per piacere o magari solo per senso del dovere, è stimolata la collaborazione: tutti per uno e uno per tutti. In un ambiente in cui si lavora principalmente per vincere premi direttamente o indirettamente monetari, è stimolata la competizione, che, come insegna Hobbes, è l’anticamera della guerra: ciascuno per sé, guerra di tutti contro tutti, soprattutto dei poveri tra loro e contro i più poveri. In che mondo vogliamo vivere e lavorare?
Enrico Mauro, ricercatore di diritto amministrativo all’Università del Salento.
