
Entusiasmo. Si chiama così il fascio di luce che illumina la scena. Quanto ne posseggono gli studenti a settembre, nei giorni del loro rientro a scuola? E quanto ne posseggono i professori? Nella settima puntata di School River, il viaggio tra i pregi ed i difetti della scuola pubblica italiana, Alessandro Macchia* fa sosta in questo cono d’ombra. La prospettiva gli è utile per uno sguardo d’insieme: “Via via che si sale nella scala dei cicli formativi, decresce nei professori la voglia di fare, la passione, il senso della ‘missione’, fino ad arrivare all’amara realtà di un mondo accademico, l’ultimo del percorso, così autoreferenziale che ha eletto lo sbadiglio a sua norma”. Manca la scintilla nella scuola, manca lo slancio, manca l’energia.
Le puntate precedenti
Dopo aver messo al centro della sua particolare lente di ingrandimento nella prima puntata la figura del dirigente scolastico, Macchia si è soffermato per 4 puntate su quella del docente ‘inquadrato’ sia dal punto di vista delle relazioni con i colleghi che nei rapporti con gli alunni e successivamente anche che nell’esercizio della nobile arte della correzione prima e della valutazione poi. Nel sesto appuntamento con i lettori ecco la volta del doposcuolista, ‘l’uomo o la donna delle ripetizioni’, la materializzazione plastica della sconfitta della scuola pubblica italiana visto che le lacune andrebbero colmate a scuola. Il tempo corre e settembre arriva in un soffio. Il professor Macchia ce la mette tutta e fa sosta sulla riva dell’entusiasmo. Ma è un fiume in secca quello che porta all’inizio delle lezioni…
#7. Settembre, è tempo d’insegnare
A settembre è così: il primo giorno entro in aula rabbuiato. I ragazzi mi domandano il motivo. È semplice, rispondo: è cominciata la scuola. Chi non mi conosce, o mi conosce come un professore severo e, almeno a lezione, tutto d’un pezzo (in genere i nuovi arrivati: quelli delle classi prime), mi guarda allibito e stralunato: un professore a cui non piace la scuola? Mi verrebbe da rispondere che a tanti e tanti professori non piace la scuola. Bisogna soltanto avere il coraggio di riconoscerlo ad alta voce.
Mi sono spesso domandato, sempre senza risposta, perché non mi piaccia la scuola. In fondo, coi ragazzi mi trovo bene. Mi vivacizzano le mattinate, lavoriamo alacremente e fra un avverbio e un aggettivo ci facciamo anche delle sane risate. Le ore volano. Quanto di più bello. E non diceva forse lo stesso Rodari che l’apprendimento deve essere accompagnato dal riso e da un dialogo effervescente?
Nel frattempo l’estate è terminata. I mesi estivi per i professori sono altresì occasione di resoconti talvolta curiosi, talvolta demenziali, talvolta drammatici, sull’anno appena trascorso. La barzelletta, se così la si vuol chiamare, dell’estate viene da un istituto tecnico industriale del frusinate: l’insegnante scopre che la metà della classe non è in grado di leggere l’orologio con le lancette. Una conseguente ora di lezione a insegnarglielo e la desolante osservazione: «Professoressa, s’impiega troppo tempo a capire che ore sono. Lasciamo stare.» E un’altra ora finita nel nulla, se non a riempire le nostre serate agostane.
Del resto, l’alternativa a questi argomenti è costituita dalle novità ministeriali. Quest’anno è stata la volta della figura del docente “esperto”. Pure, per come stanno le cose, sarebbe più utile un orologiaio. Fuor d’ironia, servirebbe in realtà il docente “entusiasta”. Ma dove trovarlo oggi? Mi vien da dire che ancora le poche che facciano il loro lavoro con questo stato d’animo siano le insegnanti delle primarie. Le vedi attivissime fin dai primi giorni per rendere più colorata e accogliente possibile la scuola ai bambini. E vorremmo citare il poeta Wystan Auden, che maestro elementare lo era stato, per dire che «non vi occorre vedere che cosa uno fa, per sapere se quella è la sua vocazione: vi basta soltanto guardare gli occhi e quello sguardo attento sull’oggetto». Ma poi, a monte di tutto il lavoro che svolgono durante l’anno, non godono neppure di uno stipendio che le ripaghi adeguatamente. E come dar loro torto se ogni tanto sollevano qualche rivendicazione?
Dovrebbe esistere un metro di misura per pesare lo zelo e la passione di queste donne. E su quel metro premiarne onestamente il merito, a prescindere dallo stesso immane volume di ore di insegnamento e programmazione, e a dispetto della partecipazione a banali e insulsi corsi di formazione. E se questo metro esistesse, si scoprirebbe che via via che si sale nella scala dei cicli formativi, decresce la voglia di fare dei professori, la passione, il senso della “missione”, fino ad arrivare all’amara realtà di un mondo accademico, l’ultimo del percorso, così autoreferenziale che ha eletto lo sbadiglio a sua norma, la ricerca a suo alibi, la burocrazia a suo diletto.
Cartacce, assemblee interminabili, funzioni di funzionari strumentali e tanti altri incupenti eccetera. La scuola girerebbe bene anche senza. Ci vuole solo un po’ di entusiasmo diffuso. Ecco, ora ho capito perché non mi piace la scuola. Da bambino mi hanno insegnato a leggere l’orologio, ma non mi hanno mai spiegato perché, quando siamo in riunione, le lancette dei minuti non si muovono mai.
*Le considerazioni sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.