E’ un campionato avvincente quello di quest’anno, come non se ne vedevano da tempo e personalmente, da juventino quale sono, ammetto una certa soddisfazione nel vedere la vecchia signora lottare come una leonessa per riprendersi quel primato che, forse, altri credevano ormai di averle già strappato ma, sebbene confessi di non essere mai stato un tifoso particolarmente legato alla squadra della sua città, non posso negare anche una punta di amarezza per il fatto che, da Settembre, quest’ultima non abbia più una rosa che la rappresenti in nessun campo come in nessuna categoria.
Per me che, avendo i nonni materni residenti al villaggio dei pescatori, sul rione Casale ci sono cresciuto e ci ho trascorso interi pomeriggi, fa male attraversare Via Benedetto Brin in auto e scoprirla vuota, senza il solito ingorgo domenicale fatto di macchine in coda che aspettano di parcheggiare dietro al precampo del Fanuzzi, di doppie file di gente davanti ai botteghini per accaparrarsi gli ultimi biglietti, di bandiere sventolanti dai balconi dei palazzi che si affacciano sullo stadio e di bancarelle che fanno su giù vendendo sciarpe e magliette coi colori e i simboli del Brindisi.
Perché, in fondo, il calcio non è solo un incontro sportivo, la ‘casciara’ in curva o, come spesso purtroppo accade, le guerriglie tra tifoserie con i ben noti annessi e connessi. In italia, in modo particolare, il calcio è sinonimo di aggregazione, di voglia di stare insieme, se non allo stadio al bar, in piazza, per trascorrere comunque un paio d’ore in cui, con la scusa della partita, ci si ritrova dopo una settimana di lavoro, per parlare del più e del meno con la speranza di poter esultare per la vittoria dei propri beniamini e affrontare con più leggerezza l’incombenza del lunedì.
Storia travagliata, quella del Brindisi, sempre a un passo dalla gloria ma tragicamente condannata a rinunciarvici, quasi come non vi fosse destinata o, chissà, non ne avesse proprio diritto. Una storia che parte da lontano e io, data l’anagrafe, devo confessare di non saperne molto, ma credo di conoscere chi meglio di altri può raccontarmela.
Così, dopo un giro di telefonate, riesco a contattare Antonio Benarrivo, sicuramente colui che a Brindisi è stata ed è ancora oggi la massima espressione del calcio giocato a livello professionistico ma con cui, pur avendolo incrociato più volte per strada, non conoscendoci di persona, non c’è mai stata occasione di scambiare due battute.
lo incontro in un bar del centro nella tarda mattinata di un piovoso e freddo sabato mattina e, sebbene allora fossi solo un ragazzino di quasi sette anni, ho ancora negli occhi quelle partite viste nel cuore delle notti di ventidue anni fa in diretta dagli USA e, trovandomi di fronte uno di coloro che di quei momenti esaltanti ne è stato protagonista, non posso fare a meno di chiedergli subito che cosa, secondo lui, è mancato quel fatidico 17 Luglio del 1994, a Pasadena, e che per un soffio non ci ha fatto essere i campioni del mondo di tutti i tempi.
“L’intelligenza – mi risponde sornione – e la furbizia da parte dell’allenatore (all’epoca Arrigo Sacchi) di capire che, se noi eravamo arrivati sfiancati a quella finale, i brasiliani non stavano certo meglio. Se avesse schierato la squadra di riserva ce la saremmo portata a casa senza difficoltà quella coppa e, oggi, racconteremmo un’altra storia”.
Ma è per parlare del Brindisi che ci siamo dati appuntamento e qui la sua espressione cambia, si fa più cupa e, togliendosi gli occhiali da sole, parte in quarta senza mezzi termini, “il problema è la mentalità che manca e la poca lungimiranza, da parte di chi amministra, nel non l’essersi circondati di gente qualificata – dice – non basta mettere insieme la solita cordata di imprenditori e spendere milioni per comprare giocatori, troppe volte a fine carriera, per credere di fare miracoli. Lo dimostrano il Chievo e il Sassuolo: c’è bisogno di creare prima le basi, progettare a lungo termine e, soprattutto, dare vita a un serbatoio di giovani del posto che vadano a rimpolpare le fila del futuro”. Una critica alla cultura del tutto e subito, insomma, ma anche a tutti quegli avventori che negli anni, dopo quel Franco Fanuzzi che tanto si era speso per la squadra e alla cui memoria lo stadio è dedicato, si sono avvicendati alla guida della società promettendo mari e monti ma che in realtà, a suo dire, non hanno fatto altro che pensare ai propri interessi e al loro personale tornaconto invece di avere a cuore la maglia, i suoi tifosi e la città che rappresentava. E’ un giudizio amaro di chi su quel campo aveva sognato di giocarci sin da bambino e che quando ci arrivato, tra sacrifici e difficoltà, ha visto la realizzazione di un sogno e la speranza che quei colori potessero aspirare, finalmente, a qualcosa di meglio.
Pagine di vita sportiva vicine a quelle raccontate da Giulio Barca che nel Brindisi ha militato in uno dei suoi ultimi periodi di esistenza e che, a distanza di trent’anni, sembra essersi ritrovato nelle stesse dinamiche con cui ebbe a che fare Benarrivo. Ci conosciamo da anni io e Giulio, siamo coetanei che hanno avuto la fortuna/sfortuna di crescere nello stesso quartiere. Lo ricordo ancora quando lo incontravo di ritorno dagli allenamenti con il borsone e la maglietta del Brindisi ancora sulle spalle e, nonostante la pioggia e il freddo non ne volessero sapere di dare un pò di tregua, è bastato un messaggio per vederci quello stesso pomeriggio e fare due chiacchiere.
“Cosa vuoi che ti dica?” mi fa subito “Finchè non la smetteremo di considerarci una grande piazza e non avremo l’umiltà di vederla per quella che è, un città come tante che ha o, meglio, aveva la sua squadra di calcio per cui tifare, non ne verremo mai fuori”. Anche lui, come Benarrivo, ne ha per amministratori locali, sedicenti procuratori e tifosi che troppo spesso credono di avere voce in capitolo per il semplice fatto di aver acquistato un biglietto che “altri non è se non il ticket per assistere a uno spettacolo come tanti altri”. Ed è in questa sua ultima affermazione che credo ci sia la chiave di lettura di tutto, in questo aver perso, da più parti, la realtà genuina delle cose non riuscendo più a vedere il calcio per quello che è veramente e che, con tutta probabilità, avrebbe dovuto rimanere per continuare a vedere il Brindisi giocare e lottare pur di raggiungere di nuovo quei risultati che, tanto tempo fa, la fecero grande tra le grandi.
di Luca Nigro
