Si è svolto, in mattinata, nell'aula bunker di Borgo San Nicola, l'interrogatorio di garanzia di sette componenti del gruppo criminale del Nord Salento emerso al termine dell'operazione investigativa "Staffetta", ma gli indagati hanno fatto "scena muta". Alessio Fortunato, 32 anni; Emilio Scozzi, 24enne di Squinzano, Fabrizio Mangeli, 48enne di Squinzano, Fausto Poso, 32enne di Squinzano, Marco Maddalo, 32enne di Trepuzzi, Marco Rapanà, 29enne di Squinzano considerato il braccio 'armato' di Fortunato insieme a Raffaele Rapanà, 23 anni, di Squinzano si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, dinanzi al gip Simona Panzera.
Georgia Bagordo, 21enne di San Pietro Vernotico, incensurata e finita ai domiciliari perché all’ottavo mese di gravidanza, verrà sentita nella mattinata di domani, così come Alberto Mangeli, detto “Roberto”, 50enne di Squinzano ricoverato nel reparto di malattie infettive dell’ospedale di Brindisi, il quale sarà interrogato per "rogatoria". Gli indagati sono assistiti dagli avvocati Andrea Starace, Stefano Prontera, Ladislao Massari, Andrea Capone, Antonio Savoia.
In base agli accertamenti investigati effettuati dai carabinieri del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo, tutto ruotava intorno ad un cellulare che, a turno, passava di mano in mano tra i componenti del clan, capitanato da Alessio Fortunato. Il numero telefono, intestato ad un ignaro cittadino serviva per ricevere le ordinazioni di cocaina. Chi riceveva l’ordine aveva il compito di smistare la richiesta agli spacciatori.
Un sistema «a cascata», messo in piedi dal sodalizio per soddisfare un numero impressionante di richieste di cocaina, fino a cento al giorno, e coprire interamente il triangolo compreso tra Trepuzzi, Campi Salentina e Squinzano. Come noto, l’operazione denominata «staffetta» ha portato all’arresto di nove persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata al traffico e alla detenzione ai fini dello spaccio di sostanze stupefacenti. Altre 23 persone sono state indagate a piede libero per favoreggiamento: non avrebbero collaborato alle indagini per paura di ritorsioni.
Alla scoperta si è arrivati quasi “per caso”. Si può dire che tutto sia nato dopo la fuga di Fabio Perrone dall’ospedale ‘Vito Fazzi di Lecce’. Tra le numerose intercettazioni telefoniche, finalizzate a trovare qualche indizio utile ai militari per scoprire il nascondiglio di "Triglietta", gli investigatori hanno notato un’utenza telefonica che ricorreva spesso. Era il “cellulare di servizio” utilizzato, come detto, per gestire un vorticoso giro di spaccio. La conferma ai sospetti è arrivata dalle dichiarazioni (spesso frammentarie e contraddittorie) degli assuntori ‘fermati’ in questi mesi.Inoltre gli inquirenti si sono avvalsi, in fase d'indagini, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Pierri.
