Dopo il sacco di Otranto, il massacro degli otrantini e il martirio degli 800 nel 1480, cambiò tutto. E cambiò grazie al genio militare di Gian Giacomo dell’Acaya che reinventò sul piano architettonico i presidi difensivi del territorio leccese. Le costruzioni degli aragonesi cambiarono faccia e la strategia militare in chiave antiturca si trasformò. Nacque il castello di Acaya, che dall’ingegnere prese il nome e fu costruito il grande castello di Lecce, sotto il regno del sovrano Carlo V.
Oggi, mura e castello potrebbero costituire una chiave d’accesso per un turismo di altissimo profilo, ma se Lecce è comunque diventata, a suo modo e parzialmente, una città a vocazione turistica e meta di flussi importanti, Acaya vive ancora in una sorta di zona del crepuscolo (per citare Dylan Dog) dove molto potrebbe essere ma non è, tanto si potrebbe crescere mentre si resta fermi al palo di un pressappochismo tipico di certe latitudini.
E allora, caro Giangiacomo, ti scriviamo idealmente nella speranza che in questo nuovo anno si possa avviare un percorso di seria riappropriazione delle prerogative uniche e irripetibili di Acaya, perché non è accettabile che con risorse di tal fatta questo luogo baciato dalla Storia non sia quella miniera d’oro che merita di essere.
Non bastano il lavoro e i sacrifici di pochi operatori commerciali, occorre un asse politico e culturale, e alla fine, a fronte di cotanta ricchezza, basterebbe davvero poco.